L’IMBOTTIGLIATORE
Era
assidua e sferzante l’aria, sul promontorio. Sotto di esso, il mare si abbatteva
impetuoso, agitato e trasportato da centinaia di destrieri di spuma. Le onde si
schiantavano sulla nuda roccia e lanciavano miriadi di spruzzi che andavano ad
infrangersi sulla parete ripida della sporgenza sopraelevata. Scomparivano un
istante dopo, spazzati via dalla brezza fredda.
A
fianco del rilievo costiero si stagliava una scultura naturale in pietra. Possedeva
solamente quattro dita, ma somigliava vagamente a una mano; una mano di una
qualche divinità dimenticata, protesa verso il mare abissale dai mille segreti
inconfessabili. Eppure non fu alcun dio l’artefice di tale opera: era il vento,
che frequente accompagnava i detriti delle più minuscole dimensioni ad abbattersi
contro la roccia, soffiando nell’eternità.
Lungo
la stradina inzaccherata che portava alla sporgenza scoscesa, intabarrato nel suo
cappotto nero, l’uomo saliva. Arrancava con sforzo sempre più crescente mano a
mano che si avvicinava alla stramaledetta sommità. Affondò il mento nel petto e
chiuse gli occhi onde evitare l’aria salmastra, che irruente gli artigliava la
pelle del viso.
I
suoi passi si fecero pesanti tanto che i sandali gli parevano cementati al
suolo. Lo sforzo compiva ogni volta che sollevava un piede pareva immane. Ed a
ogni passo sentiva la sua salute affievolirsi. D'altronde era vecchio, pensò, e
anche compiere il più semplice dei movimenti gli era faticoso come scalare la
più alta delle vette.
Si
fermò pochi istanti, giusto il tempo di recuperare un po’ di fiato, poi riprese
ostinato la sua sfida. Perché la sua era chiaramente una sfida, una sfida a cui
non si sarebbe mai tirato indietro. Troppo facile sarebbe stato abbandonare e
darsi sconfitti, e a lui non erano mai piaciute le soluzioni facili, tipiche
dei codardi. Cocci e sassi che rotolavano giù dalla pendenza gli s’insinuavano
nei sandali e gli facevano sanguinare i piedi. Le ossa scricchiolarono, le
ginocchia non ressero e l’uomo inerpicò. Riuscì a salvarsi la vita all’ultimo
secondo, afferrandosi a un grosso masso sporgente prima di rotolare giù.
La
sua vita era stata un percorso costellato di ostacoli come quel sentiero. Nella
fatica e nel sudore di quel momento vedeva il fallimento, come lampi nella
testa brevi flash, episodi di violenza e malavita. Ne aveva avuto abbastanza di
quei ricordi. Se li scosse via agitando il capo, come se gli si fossero
appollaiati in testa come mosche.
Il suo nome era Sanjuki e lì sopra lo attendeva
qualcosa, anche se poteva intuire solo vagamente che cosa. Forse la sua salvezza…
o la tanto agognata libertà? Di certo non sarebbe stato l’individuo con cui
aveva un’incontro che gliel’avrebbe offerta. Ma mai dire mai.
Sopra
il promontorio si trovava una panchina bianca, piena zeppa di piccole cavità:
morsi di tarme. Nonostante l’ingordigia dei malefici animaletti rimaneva fissata
al terreno. La violenza di quel vento freddo non l’aveva ancora spazzata via,
ma in quella condizione non poteva durare ancora a lungo.
Il mare quel giorno era acerbo, la vastità tanto
sconfinata da generare inquietudine nei pensieri di Sanjuki.
Seduto
sopra la panchina stava seduto un uomo. Sotto il giaccone di pelle nera,
s’intravedeva il colletto di una camicia azzurra. I suoi capelli brizzolati
erano scompigliati dalla raffica continua. Sanjuki sapeva quanto quell’uomo tenesse
all’ordine e alla compostezza dei suoi
capelli e sapeva che avrebbe voluto fossero sempre perfetti, irremovibili nel
momento stesso in cui venivano modellati con il floshh, “lacca per mezzi-uomini”, come piaceva definirla lui.
Walter era sempre stato un fissato dell’eleganza in ogni occasione: una
caratteristica del suo carattere che tendeva a sfociare spesso nella paranoia,
se essa non veniva compiaciuta. Eppure in quel luogo v’era qualcosa che annullava
quell’esigenza estetica, che lo costringeva addirittura a far fare un piccolo
sacrificio alla sua chioma sempre perfetta. Il paesaggio mozzafiato che dava
quell’altura si poteva osservare in tutta la sua magnificenza, gli faceva
superare ogni ostacolo, pur di poterlo contemplare.
Appoggiata
su una gamba vi era la consueta valigetta scura che lo accompagnava ogni volta
che veniva a far visita a Sanjuki. Sul davanti recava un disegno bianco di
cerchi concentrici, su ognuno dei quali girava un piccolo cerchio, il simbolo
di un pianeta, o forse un piccolo sistema solare. Si trattava del logo
dell’agenzia per cui Walter lavorava e anche Sanjuki lo conosceva bene. Il
simbolo degli Imbottigliatori.
L’uomo
si avvicinò lentamente a Walter, fino ad incontrarlo faccia a faccia. "Strano",
pensò Sanjuki, "il suo viso non invecchia mai, invece il mio sembrava
deteriorarsi ogni giorno di più. Forse è per via del tempo, che in un pianeta
sotto vetro come quello in cui abito, scorre molto più in fretta del normale…"
«Ti
ostini a farci incontrare sempre in questo maledetto punto, eppure tu sai
benissimo che ho l’artrite alle ginocchia e non sono più aitante come un tempo?
Tua madre non ti ha mai insegnato a portare rispetto per gli anziani?» lo
rimproverò Sanjuki mentre si sedeva al suo fianco.Walter gli sorrise. I suoi denti e i suoi occhi lampeggiarono. «Scusami Sanjuki, è che sono un sentimentale.»
«Un sentimentale?» borbottò Sanjuki, come se quella parola lo irritasse non poco. «Non so cosa ci troverai mai di bello in questo pianetucolo schifoso. Puah!» Il vecchio, al termine della frase, sputò impunemente a terra.
«Il solito apatico» commentò l’altro. «Noi ti regaliamo un pianeta bello e perfetto come questo e tu non sai fare altro che lamentartene ogni volta.»
«Apatico? Come cazzo parli?»
«Significa che sei
insensibile alle bellezze della natura. Ad esempio, cosa provi nell’osservare
questa agitata battaglia?» Per rendere più comprensibile le sue parole indicò
la plumbea distesa d’acqua davanti a sé.
«Mi tremano i denti e
le ossa. È questo gelo… e le gocce fredde che mi cadono addosso continuamente
come punte di ghiaccio certo non aiutano a migliorare la mia salute.»
Walter sbuffò. «Non
intendevo in quel senso. Sai cos’è il sentimento del sublime? »
«No» ammise il vecchio
senza provare vergogna.
«Vari cervelloni hanno
tentato di darne una definizione personale. Ma quello che riesce ad essere più
breve e coinciso è Schopenhauer, un filosofo nato nel
pianeta Terra circa settemila anni or sono. Secondo lui il sentimento del
sublime è il
piacere che si prova osservando la potenza o la vastità di un oggetto che
potrebbe distruggere chi lo osserva. Parole migliori non avrei trovato per
descrivere lo spettacolo naturale qui davanti ai miei occhi.»
Sanjuki borbottò qualcosa senza smettere di
osservare il mare. Poi parlò con più chiarezza. «È perché non lo vedi tutti i
giorni come faccio io. Sennò ora ti verrebbe il disgusto al solo pensiero
d’udire il suono di un’altra onda infrangersi.»
«Certo…» disse Walter con una certa inflessione di
sconforto nel tono della voce. «Dopo
tutto il tempo che ti conosco, e ancora mi ostino a parlare con te di queste
cose!»
«Vai dritto al punto, Walter, o come farei bene a
chiamarti: imbottigliatore dei miei
stivali! »
Walter
cercò di celare inutilmente una certa irritazione per quelle insolenti parole. «Non
chiamarmi
imbottigliatore,
vecchio! Sono un funzionario governativo, non un ambulante da quattro soldi!»
«Vecchio…
E pensare che un tempo, quando mi imprigionarono qui, avevo più o meno la tua
stessa età. Non è che per caso ti sia fatto installare qualche protesi?»
Walter
scrollò le spalle mentre gli rispondeva «no, è solo uno degli svantaggi di
vivere in una palla di neve. A me sinceramente non dispiace affatto l’idea.»
«Certo
che no, come è ovvio che sia. Ti conosco, io: vorresti veder morire in fretta tutti
i criminali che hai sbattuto in gattabuia.»
«Può
darsi che sia come dici tu. Ma questa è una soluzione rapida ed efficiente. Non
viola i diritti inalienabili dell’uomo descritti nella Nuova Costituzione di
Salensya e non è brutale come una oramai obsoleta pena di morte, anche se in
realtà sortisce più o meno lo stesso effetto, agli occhi di quelli che vivono
al di là del vetro.»
«Eppure
tu parli come se io fossi già morto.»
«Al
massimo tra una anno sarà così» constatò Walter, come se stesse descrivendo un
semplice dato statistico. «Che nel tuo piccolo pianeta corrisponderanno ad
altri dieci anni. Eppure l’aria salata di Requebeq VI ha reso le tue ossa forti
per molti anni. Dovresti esser grato ad essa per averti fatto sopravvivere
tanto a lungo.»
«Risparmiami
le tue stronzate e vai dritto al punto» lo attaccò il vecchio. «Perché c’è un
punto vero? O sei venuto qui solo per ridermi in faccia?»
«Effettivamente,
non sarei qui se non ci fosse un valido motivo. Viaggiare nel rimpicciolitore
particellare più essere molto stancante ed evito di farlo, se non è assolutamente
necessario.»
«Riguarda
la mia famiglia? È successo qualcosa a mia figlia?» Chiese con una certa
preoccupazione Sanjuki. «Cazzo, se gli è successo qualcosa io…»
«Non
preoccuparti, tua figlia sta benissimo. Che io sappia, lavora ancora al Centro
di Ricerche Biomolecolari ad Impatto Sonico nella città di Salandris, nel
pianeta Hootor X. Inoltre, il marito è un rinomato ricercatore nel campo dei
cervelli positronici. Stanno tutti bene, Sanjuki, sia fisicamente che
economicamente.»
«Devono
averla promossa. L’ultima volta che ebbi sue notizie doveva ancora completare
il suo stage di tre anni.»
Walter
si concesse un rapido sorriso. «Sì, ora è ufficialmente un’ottima ricercatrice
e una ragazza in gamba, senz’ombra di dubbio. Non come quel farabutto di suo
padre ergastolano.»
«Vi
ha mai chiesto di me? Recentemente, intendo.»
L’imbottigliatore
scosse la testa. «Anche se lo facesse, noi non potremmo dir nulla.»
Il
vecchio abbassò lo sguardo, atterrito dalla sconforto. «Vorrei vederla per
l’ultima volta… Solo per dirle addio… »
Walter
tossì, forse perché rifiutava di sentir avanzare simili richieste. Gli sarebbe stato
impossibile soddisfarle, nemmeno se lo avesse voluto. «…Non sono qui per
questo, Sanjuki. Devo dirti delle cose. Delle notizie dall’esterno.»
«Esterno?
Notizie dell’universo reale?»
«Non
chiamarlo reale. Questo sistema solare è reale quanto tutti gli altri, solo…
più isolato. Comunque percepisco la tua incredulità: sappiamo entrambi che
nessuna informazione che non riguardi i diretti consanguinei dei detenuti può o
è permesso che trapeli a coloro che scontano una pena all’interno delle palle
di neve. Ma abbiamo dovuto fare un’eccezione.»
«E
con ciò?» Sanjuki lo afferrò per un braccio. «Avanti, non tenermi sulle spine.»
«Prima
però devi lasciarmi fare una premessa. Vedi, dethvedì scorso, il Partito
Conservatore è caduto.» Walter emise un respiro profondo, poi riprese. «Un
evento che ha scosso tutto l’universo, per via della sua importanza storica e
del fortissimo impatto che avrà una simile vittoria da parte dell’opposizione
nella vita di ogni singolo essere umano, ma non solo. Il Governo Galattico ha indetto
un nuovo referendum per eleggere il nuovo partito che dovrà gestire le
relazioni interne ed interuniversali della razza umana. Il risultato delle
votazioni verrà reso noto tra una settimana, ma questa è una faccenda di
secondaria importanza, al momento.»
«Pensi
che me ne importi dei vostri trastulli politici? Tutto ciò non mi tocca
affatto. Io morirò intrappolato tra i vetri
di questa cella planetaria» osservò aspro Sanjuki.
«Invece
credo che sotto alcuni aspetti riguardino anche te… e noi.»
«Che
c’entrate voi?»
«Poiché
facciamo parte di un’agenzia che serve il governo, lavoreremo per chiunque
salirà al potere.» Poi, forse rendendosi conto di non aver dato una spiegazione
sufficientemente esaustiva, l’imbottigliatore continuò: «ma ora che i
conservatori e le loro ideologie moderate sono cadute, tutti gli altri partiti
promuoveranno la ricerca scientifica in tutte le sue forme, pur di ottenere il
consenso della maggioranza planetaria. Anzi, i vari laboratori, come anche
quello in qui lavora tua figlia, hanno già cominciato a intensificare la
proprie attività di ricerca di nuove tecnologie, hanno acquisito nuovi
ricercatori oltre il numero massimo consentito dalla precedente amministrazione
e commissionato la costruzione di macchinari avanzati che nel precedente
governo erano stati totalmente aboliti.»
Il
vecchio scosse lievemente il capo. «Continuo a non capire.»
«Sto parlando di clonazione, Sanjuki. Qualcosa
di cui forse avrai sentito parlare da qualche erudito o letto negli antichi
libri di storia, ma di cui i moderni mass media, fino a pochi giorni fa, hanno
praticato l’oscurantismo più inflessibile» spiegò con fare saccente Walter.
Il
vecchio sogghignò. «Sì, ne ho sentito parlare, ora che mi ci fai pensare. Se
non ho capito male, volete fare un doppione di me da usare per i vostri
divertimenti? Non vi facevo dei pervertiti.»
«Non
dire stupidaggini. Questo non avrebbe senso. Permettimi di dire che comunque il
tuo nozionismo riguardo la clonazione è alquanto arcaico.»
Ti
ho detto che ne ho solo sentito parlare, tutto qui. Non credevo nemmeno fosse
possibile, fare gli uomini come con lo stampino, tutti uguali.»
Walter
accennò di nuovo un sorriso al suo interlocutore. «Ed è qui che ti sbagli. Tu
intendi per “clonazione” la sola idea di una copia di un uomo, di un essere
vivente, o anche volendo, di un alieno. Ma possiamo estendere il termine anche ad
altri ambiti, come ad esempio a quello… della riproduzione di oggetti. Ma non
stiamo più parlando di genetica, bensì di un principio fisico legato al
concetto di scambio equivalente.»
«E
cioè?»
«Scambio
in termini elementari, di composizione. Un concetto che si avvicina a quello di
trasmutazione, ma più concreto. A livello molecolare, ogni costituente
dell’oggetto che si intende replicare viene, sotto profilo teorico, scardinato.
Poi, viene restituito come massa, e la macchina lo rielabora automaticamente
costruendolo come oggetto fatto e finito.
Una copia esatta sotto ogni punto di vista, voglio dire, e questo ci
permetterebbe…»
Sanjuki
lo interruppe. «Questo mi sembra già più interessante. Potreste arrivare a clonare
i vostri crediti galattici all’infinito!»
Walter
piegò l’angolo della bocca in un ghigno prezzante, che nascose immediatamente. «Che
idea… alquanto materialista! Ed inutile, visto che come sai i crediti sono
diventati concetti puramente astratti, e ora possono essere trasmessi solamente
via telematica. Ma non ti rendi conto di quello che possiamo fare ora con questa
tecnologia? Devo dirtelo o ti bastano gli indizi?»
Sanjuki
diede mentalmente una spolverata alle lezioni di fisica spaziale cui era stato
obbligato a frequentare da giovane. «Potreste clonare, be’… i pianeti ed i
sistemi solari mi paiono ancora un po’ troppo grandi, a meno che i raggi cosmici
a cui i pianeti sono continuamente sottoposti possano essere utilizzati come
veicolo per la propagazione di raggi… come diavolo potrei chiamarli?»
«Intendi
dire replicanti?» suggerì Walter.
«Sì,
quelli lì…»
«No, non esiste una simile tecnologia per
ora. I soggetti viventi sono impossibili da duplicare, dato che non siamo
ancora in grado di dire di cosa sia costituito l’elemento x, i ventuno grammi
che i fanatici religiosi si ostinano ad attribuire al peso dell’anima. Siamo però
recentemente entrati in possesso di quella che è ora la più avanzata
macchina per clonazioni di oggetti non viventi esistente. Ma vedi, l’oggetto
più grande che può duplicare corrisponde alla massa di un pallone da Snorfair, circa. Vuoi altri indizi o
devo dirti proprio tutto io? Comunque c’eri andato vicino con la storia dei
pianeti e dei sistemi.»
«Io…
Non vorrete mica…» Sanjuki biascicò parole sconnesse, l’incredulità era tanta
in lui.
«Come
facciamo noi funzionari governativi per imprigionare i criminali della peggior
specie come te, Sanjuki?»
Il
vecchio emise un lungo sospiro.«Voi imbottigliatori, prendete i più piccoli
sistemi solari dell’universo, quelli in cui gira almeno un pianeta intorno a
una stella, in modo che possa garantire la sopravvivenza di un essere umano, su
cui poi ovviamente abbandonate il prigioniero, in balia di un territorio spesso
ostile e del tutto sconosciuto. Con i raggi gamma del rimpicciolitore, sondate
completamente il sistema in modo tale da “imbottigliare” questi micro-universi
in quelle stupide, fragilissime palle di neve, che appena scivolano via dalle
vostre mani incompetenti potrebbero infrangersi al suolo in mille pezzi e così
decretare la fine dell’esistenza di quell’universo in miniatura. Da come volete
far credere, il procedimento serve a evitare spiacevoli evasioni, e questo è il
metodo migliore per metterci tutti quanti sotto chiave in tutta sicurezza. E
voi vorreste clonare questi universi attraverso questa macchina che prima non
vi era consentito usare!»
«Esatto.
Non è che vorremmo, l’abbiamo già fatto.» Così Walter afferrò la valigetta ai
suoi piedi, la poggiò sulle gambe, alzò i ganci e la aprì. All’interno vi era
solo una sfera perfetta, della grandezza di una boccia, la cui superficie era di
vetro trasparente. All’interno Sanjuki intravide l’immagine di un cielo
stellato in miniatura, su cui volteggiavano un paio di pianeti attorno ad un
piccolo sole. Walter mise l’oggetto nelle mani di Sanjuki, in modo che potesse
esaminarlo al meglio.
«Che-che
cos’è?»
«Il
tuo micro-sistema solare sotto vetro, ovviamente. Non sarebbe stato possibile
portarlo fino a te se non l’avessimo prima replicato.»
«Oh,
non posso crederci» balbettò Sanjuki con versi strozzati. «Sto tenendo tra le
mani… pianeti? Interi, enormi pianeti nel palmo delle mani… » Effettivamente,
all’interno della palla di neve, poteva percepire ad occhio umano lo
spostamento dei mondi, il forte brillio della stella centrale su cui ruotavano
a velocità quasi impercettibile. Un vero e proprio sistema solare vibrante, vivo, eppure al
tempo stesso così piccolo ed insignificante…
«È
un’emozione irresistibile, vero? L’onnipotenza fra le dita…» Walter sembrava
serbare molto orgoglio nei confronti di quel piccolo gingillo.
«Ma
allora qui dentro c’è la copia di questo stesso identico pianeta? C-c’è un
altro me, là dentro?»
«No,
per fortuna. Ho detto che è impossibile replicare la vita. E questa non è
nemmeno una stella diversa da quella su cui stiamo ora. Ti rendi conto di quale
casino sarebbe se fosse il contrario? Una situazione del genere sancirebbe
l’esistenza di universi alternativi, e ciò potrebbe rivelarsi un qualche cosa
di ingestibile, non solo per noi, ma per chiunque. Se fosse come dici tu, in
breve tempo potremmo avere copie e copie di un grosso sistema solare, tanto che
non ci renderemmo nemmeno conto se la realtà che stiamo vivendo sia quella
originale, o sia quella di un altro universo imbottigliato. In qualunque caso,
non sapremmo mai quale sarebbe la realtà, poiché ognuna sarebbe tale e quale
all’altra, come un’infinita, inquietante serie di matrioske.»
«Non
ho capito molto di quello che hai detto.»
«Ho
cercato di dirtelo nel modo più semplice che conosca, sapendo che se ti avessi
parlato di casuali e variabili, mi avresti capito ancora meno. Ad ogni modo,
quella che hai tra le mani non è in realtà la copia del tuo micro universo,
bensì la copia della palla di neve in cui esso è contenuto. Eviterei di agitarla
troppo, perche se ti dovesse cadere tra le mani, faremmo la stessa fine di un
asteroide la cui traiettoria prossima è un buco nero.»
Il
vecchio sgranò gli occhi. «Cosa? Potevi dirmelo prima! Cavolo, stavo anche
pensando di vedere che effetto faceva vedere la scomparsa di un sistema solare
che non fosse il mio!»
«Puoi
giocarci quanto vuoi, ma non prima che io me ne vada.»
«Cosa? vuoi lasciarmelo? E cosa dovrei
farmene?»
Walter
agitò la mano con atteggiamento sprezzante. «Quello che vuoi. Di certo non
potresti usarlo per fuggire da qui, caro Sanjuki. Ma conosco uomini dalla
misera esistenza ai quali, non in grado di porre fine alla propria vita per
mancanza di fegato, farebbe comodo un gingillo come questo.»
«E
tu mi reputi una persona del genere?»
«No,
al contrario. Ma i miei capi hanno deciso che sia giusto così, che si possa
fare pulizia di certa gente più in fretta senza violare la legge. Ma questo
conta poco, se ci pensi bene: tu per noi durerai ancora per poco. Il fatto è
che ci sembrava giusto che gli ergastolani avessero l’opportunità di un
suicidio… legale. Un atto indolore, definitivo, senza mezze misure. Ma non
saltare subito alle conclusioni e cerca di comprendere: nel nostro universo ogni
pianeta abitato dispone di ospedali, ambulanze, medici, che in caso di morti mancate
possono intervenire nella speranza di salvare l’aspirante suicida. Qui non
avete nulla, non sapreste mai se, dopo esservi lanciati dalla scogliera, invece
di spappolarvi il cervello rimarreste paralizzati, ritardando in maniera estremamente più lenta e
dolorosa il vostro decesso. Nulla è sicuro, ma non se aveste tra le mani un
simile oggetto… »
«Basta!»
si agitò Sanjuki, che stava cominciando ad avere il voltastomaco. «Ho capito,
ho capito. Credete che gente come me si penta delle proprie cattive azioni e
che voglia metter fine alla propria vita non sopportandone il rimorso, pur
sapendo che questa è già in qualche modo una non-esistenza, dato che siamo già
stati tutti quanti messi sottovuoto, come le sardine, privi di qualsivoglia
contatto con la realtà della Galassia. Questo non lo accetto, ho ancora una dignità,
seppur poca. E la conservo gelosamente. Tieni, non la voglio, la tua
opportunità!» Premette quindi la sfera al petto dell’Imbottigliatore, e la
lasciò andare, in modo che questa gli cadesse fra le gambe.
Walter
l’afferrò con entrambe le mani, e la pose delicatamente accanto a sé. «Volere
dei miei capi, ma, mi dispiace, non puoi farla ritornare indietro. Noi abbiamo
già l’originale che, nel caso tu rompessi la tua, scomparirebbe anch’essa. Te
lo dico solo per dovere d’informazione, sai, siamo molto attenti a queste
cose.»
«Ma,
allora, cosa dovrei farmene?»
«Usala
come addobbo,» si limitò a suggerirgli «ti sei costruito una bella casetta,
poco distante da qui. Spero non precaria come questa panchina, però, sennò potrei
trovarla a pezzi la prossima volta che verrò a farti visita.» Poi sembrò
prestar attenzione all’ora segnata sul suo orologio allacciato al polso, che
improvvisamente cominciò a squillare come una sveglia. «Oh, è già ora che me ne
vada.»
«Sciocchezze,
so che non verrai mai più. Questo è il nostro ultimo incontro, vero Walter? »
«Se
lo sai già, perché chiedermelo?»
«Volevo
sentirlo dire da te. Almeno salutami come si deve!»
«Temo
sia tardi, oramai» si giustificò con finto tono di rammarico. «Ho un tabella
severa da rispettare, e dopo di te ho altri diciotto galeotti a cui concedere
la stessa opportunità» disse Walter,
congedandosi con un alquanto insolito saluto militare.
Il
vecchio gli puntò contro un dito accusatore. Mentre parlava la sua mano tremava
leggermente. «Maleducato, maleducato come sempre. Ma spero tua madre ti
rimproveri quando ti comporti così.»
«Mia
madre è ben arzilla. E più giovane di quanto tu possa immaginare. I vecchi come
te, Sanjuki, li tratta allo stesso mio modo.»
«Tu…
tu sei un gran pezzo di…»
«Abbi
cura di te Sanjuki» lo interruppe Walter prima che potesse terminare il suo
insulto.
Sanjuki
non si diede per vinto. «Allora concedimi soltanto questo, Walt, un ultimo
abbraccio. Per dirci addio. »
L’imbottigliatore
sorrise e si limitò a battergli sulla spalla, un po’ stupito dal repentino
cambio di umore del vecchio. «Avanti, so che non lo vuoi davvero. Non da me,
almeno.»
«Sei
l’ultimo uomo che vedrò in vita mia. Dovrò accontentarmi.»
Walter
parve dubbioso «Strano che tu non trova la cosa poco… virile. »
«Avanti»
Sanjuki finse un sorriso. « In fondo quando eri solo un imberbe sbirro che cercava
di farsi un nome e mi davi la caccia, era come se fossimo stati quasi amici.»
Walter
sbuffò, ma non si oppose alla stretta di quel vecchietto che, in fin dei conti,
non aveva nessuno che gli facesse compagnia. «Sei un bravo ragazzo» gli disse Sanjuki all’orecchio con affetto quasi innaturale.
Poi si staccò da lui.
Si
osservarono per un poco, poi Walter decise che era momento di andarsene. Controllò
di nuovo l’orologio, annuendo quando su questo comparve il volto di una
signorina in ologramma che lo avvertiva che sarebbe stato trasportato seduta
stante a bordo della nave governativa. Scomparve così inghiottito da un’onda
violacea che lo avvolse ammantandolo come una nube. Il vento portò con sé i
residui di foschia, senza lasciare nulla là, nel punto dov’era stato seduto poco
prima l’imbottigliatore.
Sanjuki
prese fra le mani la palla di neve e rifletté. Quali sarebbero state ora le sue
prossime mosse?
I
poveri stolti e grassi burocrati lo indirizzavano a un suicidio premeditato… i
suoi pensieri sfregavano con la coscienza e con il suo Io recondito, producendo
riflessioni avvilenti. "Piazza pulita, dicono. Pulizia. Siamo solo spreco di denaro pubblico, in fondo, no? Questa
palla di neve ne è la prova concreta." Poggiò la magica sfera sopra alla
panchina. Una posizione alquanto instabile. Ma sapeva bene ciò che faceva.
Diede
un ultimo sguardo al mare cattivo, spesso soggetto principale del suo odio.
Abbassò poi lo sguardo sulle sue mani. Non erano vuote come lo erano state
quando era salito fin su del promontorio..."Morire… oppure…"
Capitava che alle volte un uomo dovesse fare delle scelte, decidere di cambiare il suo destino, rischiando anche la vita per questo. Se avesse fallito nell’estrarre dalla fondina di Walter il generatore particellare di sicurezza, sarebbe stato spazzato via dal fulminatore riposto nell’altra estremità della cintura.
Walter
non avrebbe esitato… nemmeno un secondo, e fanculo ai sentimenti. “ho fatto fuori il vecchio” avrebbe poi
dichiarato l’imbottigiatore al suo questore (un grasso burocrate anch’egli,
doveva essere) “è arso prima che potesse schiacciare il pulsante di
teletrasporto e fuggire chissà dove. Non me lo sarei mai perdonato se un
pericoloso criminale gironzolasse per la galassia a causa mia." Certo, e
gli asteroidi erano di plexiglass! Ma chi voleva prendere in giro? Se Sanjuki fosse
riuscito a scappare a causa di una distrazione da parte di Walter (sfilato via
da un vecchio decrepito!), come minimo sarebbe stato declassato all’ultimo
grado della gerarchia dei piedipiatti. E gli conveniva che gli piacesse
dirigere il traffico, perché era quello che gli avrebbero fatto fare una volta
scoperta l’evasione. "In fin dei conti mi era quasi simpatico. Un figlio
di puttana simpatico."
Ed
era vero che dopotutto il tempo cancellava le ferite della mente. Ma in quel
digradarsi del suo stato d’animo a uno stato di malinconica accettazione, i
sogni di Sanjuki furono sostituiti da una sorta di riscatto. E tutto era
avvenuto in un poco più di tre secondi.
«È
giusto sognare, ma è necessario anche svegliarsi al momento giusto.»
Prima
era stato confuso, poi dubbio. Ma mano a mano che se lo immaginava mentre discuteva
con Walter, diventava sempre più concreto. E dalla concretezza iniziale il
vecchio ne aveva sfornato un piano, semplicissimo. Doveva solo accedere al generatore
di particelle dell’agente governativo. Quando gli si fosse presentata
l’occasione giusta, mediante le agili movenze di borseggiatore professionista
come era stato in un’altra vita, avrebbe recuperato l’unico oggetto che poteva
permettergli di evadere dal microuniverso imbottigliato. Successivamente, si
sarebbe infiltrato all’interno della nave governativa (doveva solo scegliere
bene le coordinate in cui sarebbe apparso nei corridoi dell’astronave, onde
evitare spiacevoli equivoci) per poter così scorrazzare libero alla ricerca di
una navicella o di un piccolo incrociatore galattico per poi volare via
lontano, invisibile ai sensori di avvicinamento dei quali ogni struttura
governativa era dotata.
Il
pianetucolo non sarebbe stata mai la sua tomba. "Tranquille guardie, non
sarebbe necessario nessun suicidio per liberarvi in posto nella vostra spaziosa
cella. Che illusi! Il vostro amico Sanjuki avrebbe saputo utilizzare quella
nuova disposizione di eventi a suo vantaggio. " Ed il bello era che erano
stati proprio loro, a offrirgli quell’opportunità!
Però avrebbe dovuto distruggerla quella cella,
quindi a pensarci bene nemmeno gli sbirri avrebbero tratto alcun beneficio
dalla sua evasione. Perché solo se il suo pianeta fosse stato distrutto, tutti
avrebbero potuto credere alla storia della sua dipartita, del suo suicidio. E
nessuno avrebbe mai pensato a una fuga, mentre Walter se ne sarebbe stato zitto
riguardo al fatto di aver perduto il suo generatore particellare, evitando una
colossale figura di merda.
Sanjuki
ritornò con un certo disturbo alle questioni di immediata rilevanza. Stretto
fra le sue mani tremolanti, il calcio del generatore riportava, appena sotto
del numero di serie, il pulsante di accendimento. Lo guardò con desiderio, ed
era bene che lo facesse, perché ora il vento si faceva sempre più violento e
insistente. La palla di neve vacillava sotto il volere dei suoi respiri
profondi.
"Tutto
quello che desidero è andarmene via da qui. Da questo mare, e da tutto quanto
questo freddo."
E
premette il pollice sul pulsante. Il contatto fece accendere una spia rossa
sulla sommità dell’aggeggio. Rimase dello stesso colore per all’incirca tre
secondi, poi si spense. Delle parole dal
suono robotico uscirono da una sorgente situata sul rigonfiamento inferiore del
calcio. Sanjuki non riuscì a decifrarne il significato. Non successe
nient’altro.
Colto da un terribile presentimento, riprovò a
compiere la stessa azione, stavolta avvicinando l’orecchio alla sorgente
sonora. La spia rossa si accese un'altra volta. Le parole uscirono nuovamente
dal generatore, stavolta comprensibili ai suoi orecchi. «Lettura impronta
digitale effettuata. Autorizzazione negata.»
Sanjuki
aprì la bocca, ma non uscì alcun suono eccetto un pallido «ma…»
In
quell’esatto momento, il vento, in una folata di selvaggia irruenza, scaraventò
la sfera di vetro giù dalla panchina, e poi ancora più giù, via sul sentiero, sbattendo
sulle rocce e sul pietrisco. Il vecchio avvertiva le conseguenza del
frantumarsi in schegge della sua superficie ogni volta che un balzo la faceva
volare, effetto che si riverberava nell’ambiente attorno a lui con conseguenze spaventose.
Pareva di trovarsi nel bel mezzo di uno tsunami. La terra ricevette dei forti
scossoni, la boscaglia ondeggiava al ritmo del cielo, sfumato e sfrangiato dal
cataclisma generale. Il mare si abbatté sulla roccia con grattacieli di onde
che travolsero Sanjuki. Ancora sotto choc e imbibito di incredulità, cercava
disperatamente di mettersi in salvo, ma venne sommersero ancor prima di
compiere un passo. Le onde sballottarono il suo corpo con violenza tra le
correnti, come volessero cercare vendetta nei confronti del suo odio sviscerale
per il mare. Gli spezzarono le vertebre e varie ossa come fossero ramoscelli.
Un forte colpo gli arrivò sul cranio e lo fracassò, spargendo sangue e materia
cerebrale tra la schiuma e i flutti.
Nel
momento in cui la sfera si frantumò completamente, il vecchio era già morto,
sepolto dagli abissi infiniti del sublime. Concetto che non aveva più senso di
esistere, in un universo oramai ridotto a un misero mucchietto di schegge di
vetro.
Nessun commento:
Posta un commento