UNA CORDA
D’ORO
Il ragazzo, udendo i boati provenienti dal cortile
delle esecuzioni, si sentì stranamente sollevato. «Sai, è la seconda volta che
vengo condannato a morte. La prima è stata per omicidio» disse a uno degli
uomini d’arme che lo stavano conducendo al patibolo. Questi rimase muto, ma gli
rivolse un’occhiata di disapprovazione e fastidio.
A volte il caso era davvero perfido. Il ragazzo
rovesciò la testa all’indietro e scoppiò a ridere. Una risata isterica,
liberatoria.
La guardia dal fianco opposto gli mollò una gomitata
all’anca. «Razza di stolto! Al tuo posto reciterei le mie ultime preghiere!»
Il prigioniero soppresse un lamento. «Meno male che
non ci stai tu, allora. Perché io non ho proprio idea a che divinità rivolgermi
affinché possa godere di un piacevole soggiorno all’aldilà. Sempre ammesso che
esista.»
L’armigero serrò bruscamente i denti. Una mano rapida
come una folgore colpì il volto del ragazzo, che sarebbe caduto a terra se
l’altra guardia non lo avesse afferrato per il braccio. Il ragazzo fece una
smorfia, e sputò a terra un grumo di sangue. Non staccò lo sguardo profondo da
quello dell’uomo che lo aveva colpito fino che non giunse il grassoccio
funzionario delle pubbliche esecuzioni ad avvisare che il processo poteva avere
inizio.
«E sia», sospirò il giovane. S’incamminò all’esterno
del corridoio in pietra, strascicando a terra le catene che aveva serrate alle
caviglie. Alcune guardie lo spintonavano da dietro, mentre altre procedevano
davanti per dividere la folla.
Presto intravide la sinistra maestosità del patibolo
che s’arrampicava nel grigio spento del cielo, mentre nuvole scure
s’ammassavano sopra le loro teste.
Al suo passaggio, alcuni popolani facevano il segno
dei Tre Domini, sfiorando con la mano destra la fronte e le spalle. Tra di
loro, alcuni venditori ambulanti offrivano cartocci
di frittelle fredde arrotolate su un ripieno di marmellata di fragole
selvatiche.
Il ragazzo fu sorpreso da tutto quel trambusto. Si
aspettava decisamente un’accoglienza meno calda e un pubblico meno folto.
Il funzionario lo attendeva ai piedi della forca. Era
un uomo tarchiato e dai baffetti scuri e arricciati. In mano aveva una fetta di
pane azzimo, che spezzò in due. Pareva le volesse offrire entrambe al ragazzo.
«Non ho fame.»
«Non è per te» spiegò il funzionario. Un armigero
prese le due metà e le infilò nelle brache del giovane, una per ogni tasca.
Corvi e cornacchie svolazzavano disorganizzati oltre
le merlature degli edifici in pietra che circondavano un terzo del cortile,
sagome nere che volteggiano attorno alla struttura. Il loro strillo era coperto
dal vociare della folla. Litigavano per avere un posto privilegiato per lo
spettacolo della morte di quello che sarebbe stato il loro futuro pranzo.
Il ragazzo comprese e si concesse un sorrisetto. «Ho
capito. Per gli uccelli. È una sorte grama, ma poteva andare peggio.»
L’ometto alzò un sopracciglio. «Peggio di così?»
Il ragazzo annuì. «Ecco il mio destino, diverrò cibo
per i corvi. Ma mi concederete un ultimo desiderio prima di spirare? Ho sentito
che è viene dato ai condannati con una certa reputazione.»
«Stai vaneggiando.»
«Vorrei che mi si impicchi con una corda d’oro. Ho sottratto
sei cervi da sotto il regale naso del vostro re, dopotutto.»
«È ridicolo, sei solo un criminale!» sbuffò indignato
l’altro.
«Ecco, domanda un piccolo favore a questi signori che
la sembrano sapere tanto lunga e sembrerà che gli si stia chiedendo di dargli
la cosa più preziosa che hanno. E, badate bene, non intendo la verginità delle
vostre figlie, so bene che quella se n’è andata da un bel pezzo ormai.»
L’ometto parve in procinto di dirgli qualcosa, ma poi
si morse la lingua. «Abbiamo parlato abbastanza, mi pare. Toglietemelo di
torno» ordinò poi alle guardie, che scortarono il ragazzo fin sopra alla
piattaforma del patibolo.
Ad attenderlo già in cima vi era il trombettiere, il
banditore, il boia e il prevosto che recitava un qualche passo del Libro Sacro
in direzione della folla.
Una moltitudine di teste spuntava oltre il
bordo della piattaforma. Nei loro occhi c’era curiosità, in alcuni anche della rabbia,
ma il ragazzo sapeva che avrebbero avuto lo stesso atteggiamento con chiunque
fosse stato al posto suo.
Per un attimo avvertì tutta la gravità di quel
momento. Quel patibolo aveva visto perdere la vita innumerevoli criminali. Non
era nulla che questo, una macchina di morte e di svago per il volgo.
Scricchiolii. Il legname era vecchio e deformato dalla stagionatura. Puzza di
merda. Gli uccelli avevano imbrattato di macchie di escrementi il pavimento e
il parapetto.
Non c’era proprio nulla da ridere. La rivelazione
arrivò diretta come una stilettata.
Venne piazzato con i piedi sulla botola. Due guardie
si collocarono ai suoi lati.
La chiarina suonò una nota lunga e squillante di
raccolta.
Tutt’un tratto calò il silenzio. Ora tutti stavano con
il fiato sospeso per l’eccitazione.
Il banditore iniziò a leggere il proclama ad alta
voce: «brava gente di Westcrown. Oggi assisterete all’esecuzione di un
cacciatore di frodo. L’uomo qui presente è stato condannato all’impiccagione con
la grave accusa di essersi intromesso senza autorizzazione nel parco privato di
Sua Maestà il Re e di aver ucciso e sottratto sei esemplari di cervo,
successivamente venduti al mercato nero. Che Dio possa giudicarlo equamente ed
abbia pietà della sua anima.»
Poi il funzionario lanciò un’occhiata al boia.
«Possiamo procedere.»
Il
prevosto di Aoria, un beone dalla barba grigia, alzò una mano e benedisse il
condannato col il segno dei Tre Domini. Poi si allontanò.
Il
boia, nonostante il cappuccio, mostrava un’espressione annoiata. Togliere la
vita altrui per lui era solo una formalità. «Le tue ultime parole?» gli chiese.
Un vero professionista.
«Fammi
pensare. Ecco, ci sono.» E alzò la voce, cosicché tutti potessero sentirlo: «e
come disse Lord Lockheart, addio, mondo
crudele. Ai miei posteri non lascerò
altro di me che le parole di un morto e il rimpianto di non avergli dato
ascolto quando potevano.»
Sguardi
di trepidante attesa sotto di lui. Provò disprezzo per ciò che lo circondava.
Ebbe
il tempo di gettare un rapido sguardo sul volgo, prima che il buio del
cappuccio calasse per sempre sui suoi occhi. Fece in tempo a scorgere un gruppo
striminzito di nobiluomini a cavallo. Non ne conosceva nessuno, né gli
importava del perché fossero venuti ad assistere alla sua impiccagione. Aveva rubato
beni di proprietà del re, certo, ma restava solamente un misero bracconiere.
Attraverso
il sacco che gli copriva il volto, poteva avvertire la gradevole brezza che si
era levata da poco.
Sentì
il boia che gettava la corda oltre la trave, la ruvida canapa che gli veniva passata
attorno al collo, serrandolo in modo che il nodo rimanesse sospeso appena sotto
l’orecchio sinistro.
Respiro
ed inspirò. In fondo non sarebbe stata una gran cosa.
Attese
che la botola si spalancasse, di precipitare nel vuoto. Si chiese che rumore
avrebbe fatto il suo collo, se avrebbe scalciato come un lattante prima di spirare.
Non
accadde nulla di questo.
L’unico suono che giunse fu quello di una voce di un uomo, in
direzione della folla. «Lascialo andare.» Imperativa, categorica.
La folla liberò un sospiro sibilante.
«E perché mai dovremo farlo?» borbottò il funzionario dopo alcuni
istanti.
«Perché
non c’è redenzione nella condanna. Specie se è definitiva come in questo caso»
rispose lo sconosciuto con tono pacato.
Il
ragazzo sperò che la finissero in fretta. Se doveva morire, preferiva che non
ci fossero inutili lungaggini.
«Permettetemi
di dissentire, ma non sono affari vostri» fece il funzionario con voce
impastata.
«Da
questo momento, sì. Rivendico la vita di
quell’uomo. Egli può servirmi più di quanto lo farebbe a voi e al vostro re da
morto.»
Il
ragazzo serrò i denti. Odiava quell’attesa. Era una sensazione che ti arpionava
allo stomaco e che ti tirava giù, in un pozzo sempre più buio e profondo.
«E
chi siete per permettervi di avanzare una simile pretesa?» chiese il
funzionario alla voce nella folla.
«Non
è chi sono ciò che importa, ma chi rappresento. La Santa e Divina Chiesa del
Credo della Vera Luce. Un potere che, converrete con me, supera quello temporale
di qualsiasi regnante devoto come presumo sia Sua Maestà.»
A
quella rivelazione dai toni sfrontati giunse un nuovo sibilo dal popolo,
stavolta più pacato e sommesso.
«A-avete un documento che può attestarlo?» La voce dell’ometto si
faceva sempre più tentennante.
«Ho una pergamena marchiata dal sigillo papale e firmata dal Sommo
Pontefice in Persona. Ho il permesso, per legge, di poter svuotare le carceri
di ogni stato confederato, se lo volessi. Gradite vederla?» chiese l’uomo
misterioso. Sembrava molto sicuro di quello che diceva.
Il ragazzo non riuscì a credere alle sue orecchie. Cosa mai poteva
volere la Chiesa da uno come lui?
Trascorsero alcuni minuti, nei quali probabilmente la pergamena
venne posta all’attenzione del funzionario. «Dovrò verificare.»
«Potete fare tutte le prove di autenticità che volete» replicò la
voce misteriosa, ora più vicina al ragazzo. «Ma voglio che sia messo lontano
dalla forca.»
«S-sarà fatto» bisbigliò l’altro. Poi diede il comando alle
guardie. «Fate come ha detto.»
Due armati avevano afferrato il ragazzo per le braccia. Scesero adagio dal patibolo, mentre la folla mormorava
delusa.
Una
volta sceso, fece alcuni passi in avanti fino a che qualcuno non lo fermò con
un gesto.
«Nessuna
mossa avventata», bisbigliò una voce, quella di un armigero, «o ti rimandiamo
indietro.»
Il
ragazzo non disse niente, ma si lasciò guidare senza opporre resistenza.
«Non
potete!» gridò qualcuno.
Senza perdere altro tempo, il ragazzo venne condotto lontano dalla
folla lamentosa. "E anche oggi, si campa un altro giorno."
Può un sol uomo tenere testa al destino? Può un uomo sfidare la
sorte, o essere abbastanza astuto da ingannarla?
Vi
era un ragazzo disteso a terra, oppresso dalla pesantezza delle sue catene. Che
fossero solo le catene di tangibile consistenza ad opprimerlo, oppure catene di
tutt’altra natura, nessuno tranne lui avrebbe potuto dirlo.
La
sua cella era funzionale, per quanto ordinaria. Una sottile fessura in cima a una parete lasciava entrare la
luce, i muri di pietra trasudavano acqua e muschio, e una pila di paglia sporca
marciva nell’angolo.
Era un ragazzo magro
ma muscoloso, con la barba corta e capelli lunghi arruffati. Fisicamente,
appariva come un giovane uomo di diciannove anni, fatto e finito, con le gambe
lunghe, l’ampio torace, i capelli neri e l’aria torva. Indossava solamente una
camicia di stracci e un paio di pantaloni di cuoio.
Il ragazzo rifletteva.
Forse sulla sua vita, un vita che quel giorno qualcuno che non conosceva aveva
deciso di salvare. In cuor suo non sapeva se avesse fatto bene, né se aveva
voglia di sprecare ancora una volta l’opportunità che gli era stata concessa.
Il respirare, in questa grama esistenza, gli iniziava a stare stretto.
Venne scarcerato un’ora più tardi. Per un momento, il ragazzo era stato certo che l'avrebbe picchiato,
invece il funzionario aveva ordinato alle guardie di levargli catene e di
lasciarlo andare. Appena libero da quelle briglie di metallo, cadde al suolo.
Le gambe gli avevano ceduto come fossero state di pastafrolla.
Si
rimise in piedi a fatica, mentre l’ometto gli intimava di seguirlo in una
stanza appartata.
«Immagino
non riavrò le mie cose» disse il giovane, tremando per lo sforzo.
«Le
tue cose?» sbuffò l’altro. «Al tuo posto sarei grato di potere ancora
respirare, sporco d’un ladro!»
Le guardie lo condussero fino ad una stanza circolare arredata da
un tavolo e due sedie.
«Eccoti qui…» disse l’uomo che li attendeva.
Asciutto, alto e muscoloso, doveva aver appena
passato le trenta primavere. Indossava un completo di pelle, corredato di
maniche e guanti, che arrivava alle cosce. Le ginocchia erano difese da placche
di cuoio. Alla cintura portava una lunga spada a doppio taglio finemente
lavorata, unico simbolo di quello che doveva essere il suo ordine. I lineamenti
marcati, uniti all’insolita capigliatura argentea, gli conferivano un aspetto
autorevole. La sua espressione, segnata da una profonda cicatrice su un
sopracciglio, incuteva un senso di rispetto, se non proprio di timore.
Solo Dio, o qualunque altra cosa governasse le leggi del mondo,
sapeva cosa sarebbe accaduto al ragazzo se non fosse intervenuto quel singolare
quanto inquietante tipo. Eppure, non aveva l’intenzione di dovergli alcuna
riconoscenza.
Qualcuno con indosso il saio avrebbe scongiurato in un patto con
il Diavolo, con la differenza che lui non aveva firmato alcun documento, benché
meno con il suo sangue.
Il funzionario porse all’uomo misterioso un rotolo di pergamena.
La bolla papale. «È autentica… in tutto per tutto.»
«Quel documento deve valere parecchio…» azzardò a dire il
prigioniero.
«Morditi la lingua, insolente!» Una delle guardie gli mollò un
colpo al costato che lo fece cadere nuovamente a terra. Il ragazzo si mise in piedi, facendo del suo meglio
per tollerare il dolore e la stanchezza.
«Voi…
ne siete davvero sicuro?» mormorò l’ometto mentre capelli d’argento riponeva il
documento in una tasca. «Quest’uomo è colpevole di un crimine efferato! Un
nemico giurato di Aoria e tutte le sue genti.»
«Aoria
è un regno che giura da quasi cinquecento anni assoluta fedeltà al Credo,
nonché a Vespri Solenni e al Papa, per quel che mi risulta» disse l’uomo,
socchiudendo gli occhi.
«Quest’uomo
non merita la vostra pietà, mio lord.»
L’altro
sogghignò e batté sulla spalla dell’ometto, di qualche spanna più basso di lui.
«Talvolta la redenzione sta nell’espiazione. Un uomo in salute come lui può
ancora servire bene la causa di Nostro Signore là dove la sua luce deve ancora
giungere, oltre la confortante luce della Confederazione.»
Il
funzionario strabuzzò gli occhi. «Vi riferite alle terre degli eresiarchi?»
«È
lì dove la nostra missione ci vuole» ammise capelli argentei.
Il
funzionario liberò un sospiro di sollievo. «Perdonatemi mio Lord. Quest’uomo è condannato da un giusto processo presieduto
proprio dal sottoscritto. Prima d’ora, non era mai accaduto che un prigioniero
fosse rivendicato al momento della condanna.»
«È un protocollo insolito, ne convengo, messere» espresse il suo
interlocutore. «Ma insisto nel ribadire che quest’uomo sconterà la sua pena in
un altro modo, tanto che potrebbe rimpiangere la forca, se ciò può consolarvi.»
Il
funzionario iniziò a tormentarsi le falde della veste, come turbato d’un
pensiero. «Capite che avete recato grave danno all’autorità del re con questo
gesto. Avete provocato il suo malcontento .»
«È
comprensibile. Avete riferito a Sua Maestà che egli sta recando un grande
servigio al suo Credo, lo stesso Credo che ha riconosciuto davanti agli uomini
e a Dio il suo potere temporale su questo regno, la sua monarchia?»
L’ometto
fece spallucce. Esistevano poteri così autorevoli che al loro cospetto anche i
re dovevano chinarsi e mostrarsi umili. Soprattutto se l’influenza del Papa era
l’unico deterrente a un’invasione su larga scala da parte di Vvardèon. «Non è in quanto
all’aver perso un’occasione per impartire al popolo un prezioso quanto mai
banale ammonimento, ma il fatto che sia stato tutto ordinato con così poco
preavviso…»
Mentre
parlava, l’uomo dai capelli argentei esaminò il prigioniero aggrottando la
fronte. «Quest’uomo è stato confessato?» chiese infine.
Il
funzionario lo guardò il ragazzo ammiccando, pieno di sospetto. «So che ha
visto un prete, mio lord.»
«Non
sono un lord. Ma apprezzo la vostra cortesia, dignitario» tagliò corto l’altro.
«Chiamatemi solo Lauren.»
L’ometto
non osò fiatare. Lanciò al ragazzo un altro sguardo che prometteva solo malevolenza.
«Sono
stato confessato, benedetto, battezzato e tutto il resto» mentì il prigioniero.
Lauren
andò a prendere il mantello nero posato su una sedia. «Credo possiamo trovare
un accordo. Se lo ritenete necessario, posso risarcire il danno che quest’uomo
ha recato al re, cosicché ognuno potrà uscirne soddisfatto da questa
situazione.» Se lo fece scivolare con un ampio gesto dietro alla schiena e si allacciò
la fibbia al collo.
Il
funzionario alzò le mani. «Non è questione di denaro. È-è che è solo un ladro.
Perché mai dovrebbe interessare alla nobile e santissima Sede?»
«Caro
fedele, può capitare che Dio stabilisca cose delle quali noi non siamo in grado
di discernere il Disegno, ma che eppure c’è. Egli ama l’empio come il pio,
poiché ogni pecora smarrita che ritrova la via è cosa a Lui gradita e fonte di
ogni bene.» Lauren si esibì in un profondo inchino, afferrò il ragazzo per un
braccio e uscirono insieme dalla sala, stroncando sul nascere qualsiasi altra
discussione.
Dai
loro supporti lungo le pareti e i colonnati, le torce illuminavano la scalinata
che conduceva all’uscita delle carceri.
«Devi
avere una faccia tosta di proporzioni abissali per aver fatto quello che hai
fatto» si espresse Lauren, mentre camminava senza volgergli lo sguardo.
Ora
che erano soli, il ragazzo lo osservò meglio. Nel ricambiare a sua volta lo
sguardo, l’uomo al suo fianco gli trasmise una fredda metodicità.
«Già,
non credevo mi sarebbe riuscito così bene. Con chi ho l’onore di parlare?» Il suono
ovattato delle parole si protese lungo la pietra.
«Con Lauren Nivhelm o, se preferisci, con
colui che ti ha salvato la vita.» La voce di Lauren era calma. «Non hai idea di
quanto sei stato fortunato ad avermi incontrato sulla tua strada, ragazzo.»
Il
ragazzo annuì. «Buono a sapersi.»
«Immagino
che anche tu te ne compiaccia.» Lo sguardo di Lauren frugò il suo. «O forse
pensi io ti abbia in qualche modo arrecato danno togliendoti dal patibolo?»
«Ci
devo ancora pensare.» Il ragazzo alzò le spalle. «So che vuoi sapere il mio
nome, ma non è importante. Chiamami come ti pare.»
«Capisco.
Alcuni della nostra compagnia usano nomi fittizi o nomignoli per nascondere la
loro identità. Molti di loro erano come te, destinati alla forca» spiegò
Lauren, e sembrò non intendesse aggiungere altro riguardo ai suoi misteriosi compagni.
«Il
tuo qual è?»
L'espressione
di lui si fece ancora più cupa. «Lo Spettro.»
«Temibile.»
Il ragazzo parlò con tono irriverente, ma dentro di se percepì un brivido
glaciale, come se quel nome potesse davvero concretizzarsi nell’individuo al
suo fianco.
«I miei nemici lo pensano. Ma a te darò un
nome più semplice da portare.» Il corridoio rimandò gli echi della voce di
Lauren. Suonavano glaciali, come i suoi occhi e le sue maniere. «Sai cosa mi ha
colpito di te? Sappi che non libero condannati a morte ogni giorno, no.
Solamente se questi riescono in qualche modo a colpirli e a mostrarmi qualcosa
di loro, perché nella morte ogni anima è spogliata, indifesa, e si mostra per
quello che è.» Poi parve pensarci un poco sopra. «Il tuo nome sarà Lockheart»
decise infine.
«Come
il Conte Lockheart, protagonista de “I giorni perduti” di ser Flubert Seymour»
rilevò il ragazzo compiaciuto. Chissà come, quel nome gli suonava già
famigliare. Gli piaceva.
Lauren
annuì. «Ho riconosciuto la tua citazione. Come Lord David Lockheart, sei stato
punito e messo al patibolo. “Addio mondo crudele”, è la celebre frase che pronunziò
alla corte del boia, ma in cuor suo stava condannando alla dannazione eterna
ogni uomo, donna e bambino che lo vedeva morire in quella piazza.»
Il
ragazzo conosceva bene quel romanzo. E ancor meglio, conosceva Seymour, fine
letterato e noto eversivo, nonché sottile accusatore dei soprusi perpetrati
dalla Chiesa nel corso dei secoli. Frode, lassismo, abusi erano alcune fra le
colpe più ricorrenti che le sue parole –e i suoi personaggi– condannavano. «Mi
sorprende che tu abbia letto quel libro.» Sorte davvero bizzarra. Chi l’avrebbe
mai detto che un giorno l’aver letto quel ragazzaccio di Seymour gli avrebbe
salvato la vita?
Per
la prima volta Lauren sorrise. «Non mi conosci ancora.» Sembrava che l’idea che
un uomo come lui potesse conoscere opere letterarie poco conosciute e per di
più aperti manifesti di denuncia contro il Credo lo divertisse. «Sappiamo
leggere e conosciamo entrambi “I giorni perduti”, non è una semplice coincidenza,
Lockheart.»
«Se
non lo avessi citato come mie ultime parole, ora sarei già bello che morto, è
questo che vuoi dirmi?» chiese il ragazzo.
Lauren
sorrise di nuovo. «Lascio a te il beneficio del dubbio» si limitò a rispondere.
Il
ragazzo serrò i denti, mentre un armigero apriva la porta di fronte a loro,
permettendo ai due di lasciare il corridoio delle segrete.
Lauren
lo lasciò passare rispettosamente per primo, anche se al ragazzo non piaceva
questa sua sorta di inappropriata gentilezza.
La cosa che più lo frustrava, era il fatto di non riuscire a comprendere
appieno quell’uomo. Entrarono in un salone d’ingresso dall’aria spartana. Si
diressero verso l’uscita.
«Dopotutto,
questa giornata si sta rivelando piena di sorprese» considerò il ragazzo.
Squadrò il suo nuovo compagno. Lo Spettro era un
uomo alto, più alto persino di lui, giusto di mezza spanna. Si chiese se, in un
duello fra loro, si sarebbe mai potute dire che combattevano ad armi pari. «Lockheart
mi sta bene. Ora cosa mi succederà?»
Lauren
si fermò di colpo, soffermandosi accanto alla porta. «Conoscerai il tuo
destino. Perché, che ti piaccia o no, ora tu mi appartieni.» La guardia nel
frattempo iniziò a girare la chiave nella serratura.
Il
ragazzo sospirò ma annuì. «Altre catene. Ma questa volta credo che mi
divertirò.»
Lauren
si espresse in un nuovo sorriso. «Oh, non ne ho il minimo dubbio, Lockheart. Il
minimo dubbio.»
Dopodiché, si allontanarono finalmente dall’insopportabile tanfo e
dall’ingente umidità che impregnavano le prigioni di Westcrown.