domenica 8 luglio 2018

UNA CORDA D’ORO



UNA CORDA D’ORO


Il ragazzo, udendo i boati provenienti dal cortile delle esecuzioni, si sentì stranamente sollevato. «Sai, è la seconda volta che vengo condannato a morte. La prima è stata per omicidio» disse a uno degli uomini d’arme che lo stavano conducendo al patibolo. Questi rimase muto, ma gli rivolse un’occhiata di disapprovazione e fastidio.
A volte il caso era davvero perfido. Il ragazzo rovesciò la testa all’indietro e scoppiò a ridere. Una risata isterica, liberatoria.
La guardia dal fianco opposto gli mollò una gomitata all’anca. «Razza di stolto! Al tuo posto reciterei le mie ultime preghiere!»
Il prigioniero soppresse un lamento. «Meno male che non ci stai tu, allora. Perché io non ho proprio idea a che divinità rivolgermi affinché possa godere di un piacevole soggiorno all’aldilà. Sempre ammesso che esista.» 
L’armigero serrò bruscamente i denti. Una mano rapida come una folgore colpì il volto del ragazzo, che sarebbe caduto a terra se l’altra guardia non lo avesse afferrato per il braccio. Il ragazzo fece una smorfia, e sputò a terra un grumo di sangue. Non staccò lo sguardo profondo da quello dell’uomo che lo aveva colpito fino che non giunse il grassoccio funzionario delle pubbliche esecuzioni ad avvisare che il processo poteva avere inizio.
«E sia», sospirò il giovane. S’incamminò all’esterno del corridoio in pietra, strascicando a terra le catene che aveva serrate alle caviglie. Alcune guardie lo spintonavano da dietro, mentre altre procedevano davanti per dividere la folla.
Presto intravide la sinistra maestosità del patibolo che s’arrampicava nel grigio spento del cielo, mentre nuvole scure s’ammassavano sopra le loro teste.
Al suo passaggio, alcuni popolani facevano il segno dei Tre Domini, sfiorando con la mano destra la fronte e le spalle. Tra di loro, alcuni venditori ambulanti offrivano cartocci di frittelle fredde arrotolate su un ripieno di marmellata di fragole selvatiche.
Il ragazzo fu sorpreso da tutto quel trambusto. Si aspettava decisamente un’accoglienza meno calda e un pubblico meno folto.
Il funzionario lo attendeva ai piedi della forca. Era un uomo tarchiato e dai baffetti scuri e arricciati. In mano aveva una fetta di pane azzimo, che spezzò in due. Pareva le volesse offrire entrambe al ragazzo.
«Non ho fame.»
«Non è per te» spiegò il funzionario. Un armigero prese le due metà e le infilò nelle brache del giovane, una per ogni tasca.
Corvi e cornacchie svolazzavano disorganizzati oltre le merlature degli edifici in pietra che circondavano un terzo del cortile, sagome nere che volteggiano attorno alla struttura. Il loro strillo era coperto dal vociare della folla. Litigavano per avere un posto privilegiato per lo spettacolo della morte di quello che sarebbe stato il loro futuro pranzo.
Il ragazzo comprese e si concesse un sorrisetto. «Ho capito. Per gli uccelli. È una sorte grama, ma poteva andare peggio.»
L’ometto alzò un sopracciglio. «Peggio di così?»
Il ragazzo annuì. «Ecco il mio destino, diverrò cibo per i corvi. Ma mi concederete un ultimo desiderio prima di spirare? Ho sentito che è viene dato ai condannati con una certa reputazione.»
«Stai vaneggiando.»
«Vorrei che mi si impicchi con una corda d’oro. Ho sottratto sei cervi da sotto il regale naso del vostro re, dopotutto.»
«È ridicolo, sei solo un criminale!» sbuffò indignato l’altro.
«Ecco, domanda un piccolo favore a questi signori che la sembrano sapere tanto lunga e sembrerà che gli si stia chiedendo di dargli la cosa più preziosa che hanno. E, badate bene, non intendo la verginità delle vostre figlie, so bene che quella se n’è andata da un bel pezzo ormai.»
L’ometto parve in procinto di dirgli qualcosa, ma poi si morse la lingua. «Abbiamo parlato abbastanza, mi pare. Toglietemelo di torno» ordinò poi alle guardie, che scortarono il ragazzo fin sopra alla piattaforma del patibolo.
Ad attenderlo già in cima vi era il trombettiere, il banditore, il boia e il prevosto che recitava un qualche passo del Libro Sacro in direzione della folla.
Una moltitudine di teste spuntava oltre il bordo della piattaforma. Nei loro occhi c’era curiosità, in alcuni anche della rabbia, ma il ragazzo sapeva che avrebbero avuto lo stesso atteggiamento con chiunque fosse stato al posto suo.
Per un attimo avvertì tutta la gravità di quel momento. Quel patibolo aveva visto perdere la vita innumerevoli criminali. Non era nulla che questo, una macchina di morte e di svago per il volgo. Scricchiolii. Il legname era vecchio e deformato dalla stagionatura. Puzza di merda. Gli uccelli avevano imbrattato di macchie di escrementi il pavimento e il parapetto.
Non c’era proprio nulla da ridere. La rivelazione arrivò diretta come una stilettata.
Venne piazzato con i piedi sulla botola. Due guardie si collocarono ai suoi lati.
La chiarina suonò una nota lunga e squillante di raccolta.                         
Tutt’un tratto calò il silenzio. Ora tutti stavano con il fiato sospeso per l’eccitazione.
Il banditore iniziò a leggere il proclama ad alta voce: «brava gente di Westcrown. Oggi assisterete all’esecuzione di un cacciatore di frodo. L’uomo qui presente è stato condannato all’impiccagione con la grave accusa di essersi intromesso senza autorizzazione nel parco privato di Sua Maestà il Re e di aver ucciso e sottratto sei esemplari di cervo, successivamente venduti al mercato nero. Che Dio possa giudicarlo equamente ed abbia pietà della sua anima.»
Poi il funzionario lanciò un’occhiata al boia. «Possiamo procedere.»
Il prevosto di Aoria, un beone dalla barba grigia, alzò una mano e benedisse il condannato col il segno dei Tre Domini. Poi si allontanò.
Il boia, nonostante il cappuccio, mostrava un’espressione annoiata. Togliere la vita altrui per lui era solo una formalità. «Le tue ultime parole?» gli chiese. Un vero professionista.
«Fammi pensare. Ecco, ci sono.» E alzò la voce, cosicché tutti potessero sentirlo: «e come disse Lord Lockheart, addio, mondo crudele. Ai miei posteri non lascerò altro di me che le parole di un morto e il rimpianto di non avergli dato ascolto quando potevano.»
Sguardi di trepidante attesa sotto di lui. Provò disprezzo per ciò che lo circondava.
Ebbe il tempo di gettare un rapido sguardo sul volgo, prima che il buio del cappuccio calasse per sempre sui suoi occhi. Fece in tempo a scorgere un gruppo striminzito di nobiluomini a cavallo. Non ne conosceva nessuno, né gli importava del perché fossero venuti ad assistere alla sua impiccagione. Aveva rubato beni di proprietà del re, certo, ma restava solamente un misero bracconiere.
Attraverso il sacco che gli copriva il volto, poteva avvertire la gradevole brezza che si era levata da poco.
Sentì il boia che gettava la corda oltre la trave, la ruvida canapa che gli veniva passata attorno al collo, serrandolo in modo che il nodo rimanesse sospeso appena sotto l’orecchio sinistro.
Respiro ed inspirò. In fondo non sarebbe stata una gran cosa.
Attese che la botola si spalancasse, di precipitare nel vuoto. Si chiese che rumore avrebbe fatto il suo collo, se avrebbe scalciato come un lattante prima di spirare.
Non accadde nulla di questo.
L’unico suono che giunse fu quello di una voce di un uomo, in direzione della folla. «Lascialo andare.» Imperativa, categorica.
La folla liberò un sospiro sibilante.
«E perché mai dovremo farlo?» borbottò il funzionario dopo alcuni istanti.
«Perché non c’è redenzione nella condanna. Specie se è definitiva come in questo caso» rispose lo sconosciuto con tono pacato.
Il ragazzo sperò che la finissero in fretta. Se doveva morire, preferiva che non ci fossero inutili lungaggini.
«Permettetemi di dissentire, ma non sono affari vostri» fece il funzionario con voce impastata.
«Da questo momento, sì.  Rivendico la vita di quell’uomo. Egli può servirmi più di quanto lo farebbe a voi e al vostro re da morto.»
Il ragazzo serrò i denti. Odiava quell’attesa. Era una sensazione che ti arpionava allo stomaco e che ti tirava giù, in un pozzo sempre più buio e profondo.
«E chi siete per permettervi di avanzare una simile pretesa?» chiese il funzionario alla voce nella folla.
«Non è chi sono ciò che importa, ma chi rappresento. La Santa e Divina Chiesa del Credo della Vera Luce. Un potere che, converrete con me, supera quello temporale di qualsiasi regnante devoto come presumo sia Sua Maestà.»
A quella rivelazione dai toni sfrontati giunse un nuovo sibilo dal popolo, stavolta più pacato e sommesso.
«A-avete un documento che può attestarlo?» La voce dell’ometto si faceva sempre più tentennante.
«Ho una pergamena marchiata dal sigillo papale e firmata dal Sommo Pontefice in Persona. Ho il permesso, per legge, di poter svuotare le carceri di ogni stato confederato, se lo volessi. Gradite vederla?» chiese l’uomo misterioso. Sembrava molto sicuro di quello che diceva.
Il ragazzo non riuscì a credere alle sue orecchie. Cosa mai poteva volere la Chiesa da uno come lui?
Trascorsero alcuni minuti, nei quali probabilmente la pergamena venne posta all’attenzione del funzionario. «Dovrò verificare.»
«Potete fare tutte le prove di autenticità che volete» replicò la voce misteriosa, ora più vicina al ragazzo. «Ma voglio che sia messo lontano dalla forca.»
«S-sarà fatto» bisbigliò l’altro. Poi diede il comando alle guardie. «Fate come ha detto.»
Due armati avevano afferrato il ragazzo per le braccia. Scesero adagio dal patibolo, mentre la folla mormorava delusa.
Una volta sceso, fece alcuni passi in avanti fino a che qualcuno non lo fermò con un gesto.
«Nessuna mossa avventata», bisbigliò una voce, quella di un armigero, «o ti rimandiamo indietro.»
Il ragazzo non disse niente, ma si lasciò guidare senza opporre resistenza.
«Non potete!» gridò qualcuno.
Senza perdere altro tempo, il ragazzo venne condotto lontano dalla folla lamentosa. "E anche oggi, si campa un altro giorno."


Può un sol uomo tenere testa al destino? Può un uomo sfidare la sorte, o essere abbastanza astuto da ingannarla?
Vi era un ragazzo disteso a terra, oppresso dalla pesantezza delle sue catene. Che fossero solo le catene di tangibile consistenza ad opprimerlo, oppure catene di tutt’altra natura, nessuno tranne lui avrebbe potuto dirlo.
La sua cella era funzionale, per quanto ordinaria. Una sottile fessura in cima a una parete lasciava entrare la luce, i muri di pietra trasudavano acqua e muschio, e una pila di paglia sporca marciva nell’angolo.
Era un ragazzo magro ma muscoloso, con la barba corta e capelli lunghi arruffati. Fisicamente, appariva come un giovane uomo di diciannove anni, fatto e finito, con le gambe lunghe, l’ampio torace, i capelli neri e l’aria torva. Indossava solamente una camicia di stracci e un paio di pantaloni di cuoio.
Il ragazzo rifletteva. Forse sulla sua vita, un vita che quel giorno qualcuno che non conosceva aveva deciso di salvare. In cuor suo non sapeva se avesse fatto bene, né se aveva voglia di sprecare ancora una volta l’opportunità che gli era stata concessa. Il respirare, in questa grama esistenza, gli iniziava a stare stretto.


Venne scarcerato un’ora più tardi. Per un momento, il ragazzo era stato certo che l'avrebbe picchiato, invece il funzionario aveva ordi­nato alle guardie di levargli catene e di lasciarlo andare. Appena libero da quelle briglie di metallo, cadde al suolo. Le gambe gli avevano ceduto come fossero state di pastafrolla.
Si rimise in piedi a fatica, mentre l’ometto gli intimava di seguirlo in una stanza appartata.
«Immagino non riavrò le mie cose» disse il giovane, tremando per lo sforzo.
«Le tue cose?» sbuffò l’altro. «Al tuo posto sarei grato di potere ancora respirare, sporco d’un ladro!»
Le guardie lo condussero fino ad una stanza circolare arredata da un tavolo e due sedie.
«Eccoti qui…» disse l’uomo che li attendeva.
Asciutto, alto e muscoloso, doveva aver appena passato le trenta primavere. Indossava un completo di pelle, corredato di maniche e guanti, che arrivava alle cosce. Le ginocchia erano difese da placche di cuoio. Alla cintura portava una lunga spada a doppio taglio finemente lavorata, unico simbolo di quello che doveva essere il suo ordine. I lineamenti marcati, uniti all’insolita capigliatura argentea, gli conferivano un aspetto autorevole. La sua espressione, segnata da una profonda cicatrice su un sopracciglio, incuteva un senso di rispetto, se non proprio di timore.
Solo Dio, o qualunque altra cosa governasse le leggi del mondo, sapeva cosa sarebbe accaduto al ragazzo se non fosse intervenuto quel singolare quanto inquietante tipo. Eppure, non aveva l’intenzione di dovergli alcuna riconoscenza.
Qualcuno con indosso il saio avrebbe scongiurato in un patto con il Diavolo, con la differenza che lui non aveva firmato alcun documento, benché meno con il suo sangue.
Il funzionario porse all’uomo misterioso un rotolo di pergamena. La bolla papale. «È autentica… in tutto per tutto.»
«Quel documento deve valere parecchio…» azzardò a dire il prigioniero.
«Morditi la lingua, insolente!» Una delle guardie gli mollò un colpo al costato che lo fece cadere nuovamente a terra. Il ragazzo si mise in piedi, facendo del suo meglio per tollerare il dolore e la stanchezza.
«Voi… ne siete davvero sicuro?» mormorò l’ometto mentre capelli d’argento riponeva il documento in una tasca. «Quest’uomo è colpevole di un crimine efferato! Un nemico giurato di Aoria e tutte le sue genti.»
«Aoria è un regno che giura da quasi cinquecento anni assoluta fedeltà al Credo, nonché a Vespri Solenni e al Papa, per quel che mi risulta» disse l’uomo, socchiudendo gli occhi.
«Quest’uomo non merita la vostra pietà, mio lord.»
L’altro sogghignò e batté sulla spalla dell’ometto, di qualche spanna più basso di lui. «Talvolta la redenzione sta nell’espiazione. Un uomo in salute come lui può ancora servire bene la causa di Nostro Signore là dove la sua luce deve ancora giungere, oltre la confortante luce della Confederazione.»
Il funzionario strabuzzò gli occhi. «Vi riferite alle terre degli eresiarchi?»
«È lì dove la nostra missione ci vuole» ammise capelli argentei.
Il funzionario liberò un sospiro di sollievo. «Perdonatemi mio Lord. Quest’uomo è condannato da un giusto processo presieduto proprio dal sottoscritto. Prima d’ora, non era mai accaduto che un prigioniero fosse rivendicato al momento della condanna.»
«È un protocollo insolito, ne convengo, messere» espresse il suo interlocutore. «Ma insisto nel ribadire che quest’uomo sconterà la sua pena in un altro modo, tanto che potrebbe rimpiangere la forca, se ciò può consolarvi.»
Il funzionario iniziò a tormentarsi le falde della veste, come turbato d’un pensiero. «Capite che avete recato grave danno all’autorità del re con questo gesto. Avete provocato il suo malcontento .»
«È comprensibile. Avete riferito a Sua Maestà che egli sta recando un grande servigio al suo Credo, lo stesso Credo che ha riconosciuto davanti agli uomini e a Dio il suo potere temporale su questo regno, la sua monarchia?»
L’ometto fece spallucce. Esistevano poteri così autorevoli che al loro cospetto anche i re dovevano chinarsi e mostrarsi umili. Soprattutto se l’influenza del Papa era l’unico deterrente a un’invasione su larga scala da parte di Vvardèon. «Non è in quanto all’aver perso un’occasione per impartire al popolo un prezioso quanto mai banale ammonimento, ma il fatto che sia stato tutto ordinato con così poco preavviso…»
Mentre parlava, l’uomo dai capelli argentei esaminò il prigioniero aggrottando la fronte. «Quest’uomo è stato confessato?» chiese infine.
Il funzionario lo guardò il ragazzo ammiccando, pieno di sospetto. «So che ha visto un prete, mio lord.»
«Non sono un lord. Ma apprezzo la vostra cortesia, dignitario» tagliò corto l’altro. «Chiamatemi solo Lauren.»
L’ometto non osò fiatare. Lanciò al ragazzo un altro sguardo che promet­teva solo malevolenza.
«Sono stato confessato, benedetto, battezzato e tutto il resto» mentì il prigioniero.
Lauren andò a prendere il mantello nero posato su una sedia. «Credo possiamo trovare un accordo. Se lo ritenete necessario, posso risarcire il danno che quest’uomo ha recato al re, cosicché ognuno potrà uscirne soddisfatto da questa situazione.» Se lo fece scivolare con un ampio gesto dietro alla schiena e si allacciò la fibbia al collo.
Il funzionario alzò le mani. «Non è questione di denaro. È-è che è solo un ladro. Perché mai dovrebbe interessare alla nobile e santissima Sede?»
«Caro fedele, può capitare che Dio stabilisca cose delle quali noi non siamo in grado di discernere il Disegno, ma che eppure c’è. Egli ama l’empio come il pio, poiché ogni pecora smarrita che ritrova la via è cosa a Lui gradita e fonte di ogni bene.» Lauren si esibì in un profondo inchino, afferrò il ragazzo per un braccio e uscirono insieme dalla sala, stroncando sul nascere qualsiasi altra discussione.
Dai loro supporti lungo le pareti e i colonnati, le torce illuminavano la scalinata che conduceva all’uscita delle carceri.
«Devi avere una faccia tosta di proporzioni abissali per aver fatto quello che hai fatto» si espresse Lauren, mentre camminava senza volgergli lo sguardo.
Ora che erano soli, il ragazzo lo osservò meglio. Nel ricambiare a sua volta lo sguardo, l’uomo al suo fianco gli trasmise una fredda metodicità.
«Già, non credevo mi sarebbe riuscito così bene. Con chi ho l’onore di parlare?» Il suono ovattato delle parole si protese lungo la pietra.
 «Con Lauren Nivhelm o, se preferisci, con colui che ti ha salvato la vita.» La voce di Lauren era calma. «Non hai idea di quanto sei stato fortunato ad avermi incontrato sulla tua strada, ragazzo.»
Il ragazzo annuì. «Buono a sapersi.»
«Immagino che anche tu te ne compiaccia.» Lo sguardo di Lauren frugò il suo. «O forse pensi io ti abbia in qualche modo arrecato danno togliendoti dal patibolo?»
«Ci devo ancora pensare.» Il ragazzo alzò le spalle. «So che vuoi sapere il mio nome, ma non è importante. Chiamami come ti pare.»
«Capisco. Alcuni della nostra compagnia usano nomi fittizi o nomignoli per nascondere la loro identità. Molti di loro erano come te, destinati alla forca» spiegò Lauren, e sembrò non intendesse aggiungere altro riguardo ai suoi misteriosi compagni.
«Il tuo qual è?»
L'espressione di lui si fece ancora più cupa. «Lo Spettro.»
«Temibile.» Il ragazzo parlò con tono irriverente, ma dentro di se percepì un brivido glaciale, come se quel nome potesse davvero concretizzarsi nell’individuo al suo fianco.
 «I miei nemici lo pensano. Ma a te darò un nome più semplice da portare.» Il corridoio rimandò gli echi della voce di Lauren. Suonavano glaciali, come i suoi occhi e le sue maniere. «Sai cosa mi ha colpito di te? Sappi che non libero condannati a morte ogni giorno, no. Solamente se questi riescono in qualche modo a colpirli e a mostrarmi qualcosa di loro, perché nella morte ogni anima è spogliata, indifesa, e si mostra per quello che è.» Poi parve pensarci un poco sopra. «Il tuo nome sarà Lockheart» decise infine.
«Come il Conte Lockheart, protagonista de “I giorni perduti” di ser Flubert Seymour» rilevò il ragazzo compiaciuto. Chissà come, quel nome gli suonava già famigliare. Gli piaceva.
Lauren annuì. «Ho riconosciuto la tua citazione. Come Lord David Lockheart, sei stato punito e messo al patibolo. “Addio mondo crudele”, è la celebre frase che pronunziò alla corte del boia, ma in cuor suo stava condannando alla dannazione eterna ogni uomo, donna e bambino che lo vedeva morire in quella piazza.»
Il ragazzo conosceva bene quel romanzo. E ancor meglio, conosceva Seymour, fine letterato e noto eversivo, nonché sottile accusatore dei soprusi perpetrati dalla Chiesa nel corso dei secoli. Frode, lassismo, abusi erano alcune fra le colpe più ricorrenti che le sue parole –e i suoi personaggi– condannavano. «Mi sorprende che tu abbia letto quel libro.» Sorte davvero bizzarra. Chi l’avrebbe mai detto che un giorno l’aver letto quel ragazzaccio di Seymour gli avrebbe salvato la vita?
Per la prima volta Lauren sorrise. «Non mi conosci ancora.» Sembrava che l’idea che un uomo come lui potesse conoscere opere letterarie poco conosciute e per di più aperti manifesti di denuncia contro il Credo lo divertisse. «Sappiamo leggere e conosciamo entrambi “I giorni perduti”, non è una semplice coincidenza, Lockheart.»
«Se non lo avessi citato come mie ultime parole, ora sarei già bello che morto, è questo che vuoi dirmi?» chiese il ragazzo.
Lauren sorrise di nuovo. «Lascio a te il beneficio del dubbio» si limitò a rispondere.
Il ragazzo serrò i denti, mentre un armigero apriva la porta di fronte a loro, permettendo ai due di lasciare il corridoio delle segrete.
Lauren lo lasciò passare rispettosamente per primo, anche se al ragazzo non piaceva questa sua sorta di inappropriata gentilezza. La cosa che più lo frustrava, era il fatto di non riuscire a comprendere appieno quell’uomo. Entrarono in un salone d’ingresso dall’aria spartana. Si diressero verso l’uscita.
«Dopotutto, questa giornata si sta rivelando piena di sorprese» considerò il ragazzo. Squadrò il suo nuovo compagno. Lo Spettro era un uomo alto, più alto persino di lui, giusto di mezza spanna. Si chiese se, in un duello fra loro, si sarebbe mai potute dire che combattevano ad armi pari. «Lockheart mi sta bene. Ora cosa mi succederà?»
Lauren si fermò di colpo, soffermandosi accanto alla porta. «Conoscerai il tuo destino. Perché, che ti piaccia o no, ora tu mi appartieni.» La guardia nel frattempo iniziò a girare la chiave nella serratura.
Il ragazzo sospirò ma annuì. «Altre catene. Ma questa volta credo che mi divertirò.»
Lauren si espresse in un nuovo sorriso. «Oh, non ne ho il minimo dubbio, Lockheart. Il minimo dubbio.»
Dopodiché, si allontanarono finalmente dall’insopportabile tanfo e dall’ingente umidità che impregnavano le prigioni di Westcrown.

martedì 27 marzo 2018

CACCIATORI DI LEGGENDE: PROLOGO




“Nessuna speranza, nessun amore, nessun lieto fine.
Prima e dopo di me, solamente lo schifo di cui è intriso il mondo.”
Epitaffio inciso sulla tomba di ser Flubert Seymour.




PROLOGO:
IL CAVALIERE MORENTE


Silenzio.
È ciò che accompagna la morte.
La consapevolezza della fine non giunge mai, come se il pensiero s’arrestasse di colpo.
Silenzio.
Non si sente più il battito. Vi è una quiete improvvisa, vuota, che riecheggia accompagnata dal vento, spirando attraverso gli alberi, facendo vacillare gli arbusti più giovani. Vi è il rassicurante sapore di casa, di ricordi di un’intera vita vissuta, di foglie autunnali che vorticano lungo un viale deserto, di ragazze sudate che danzano durante la festa di mezza estate. Ricordi di conversazioni e di risa che avrebbero riempito la solitudine dell’anima. Il fracasso e gli schiamazzi nelle buie serate invernali.
Silenzio. Nessuna musica. Ora è più forte nella mente.
Silenzio. Un vuoto che riempie quello più grande. Presto arriveranno altri suoni, esploderanno come in un’orchestra di fanfare.
Silenzio. Odore di carcassa. Ondate soffocanti di putrefazione. La paura che paralizza i muscoli e inaridisce la gola.
Odore di fiori recisi e regalati ad una donna. Il porticato e il giardino odoroso di gelsomino. Odore della pelle di lei, liscia come la seta, il supplizio di non poterla più accarezzare. Il biondo dorato dei suoi capelli, fasci che trattengono la luce. I suoi occhi scuri e vivaci, la curiosità che proviene da chi ha voglia di scoprire cose nuove.
Silenzio. Avvolge tutto dentro di sé. Un oceano profondo e vasto come il gelo che annuncia la fine del mondo. Pesante come un macigno.
Il sapere di essere solo basterà a calmarlo, a riportarlo alla ragione. Lontano, si fa sempre più lontano il fischio del vento.


Gli occhi si spalancarono nella coltre bianca.
Un alto manto di neve ricopriva ogni cosa. Il vento spazzava il fianco della collina, ululando nella tormenta. Gli alberi appesantiti dalle coltri lasciavano cadere falde di neve con tonfi sordi.
Solo lui osava sfidare la furia imperversante della natura. Procedeva lentamente nella neve lungo un sentiero immaginario che seguiva il margine del bosco, ai piedi dell’altura.
Strati di coltri ricoprivano il suo corpo, mentre la bruna cavalcatura lo precedeva arrancando stordita dal gelo.
Mancavano pochi giorni al sorgere dell’inverno, e il clima avrebbe raggiunto le soglie più basse dell’anno. Sugli ultimi contrafforti dei Monti della Fiamma Bianca, il freddo riusciva a rendere gelata pure l’acqua corrente. Chi in quel periodo lasciava i Regni Spezzati per entrare nelle terre dei Re Dimenticati avrebbe facilmente incontrato la morte sul suo cammino.
Il destriero dal manto punteggiato di cristalli gelati si spingeva lento come il suo padrone, il battito del suo cuore che diveniva pian piano sempre più debole.
Spesso la marcia dell’uomo si arrestava. Alzava la testa come fosse in ascolto di qualcosa o per distendere la schiena tesa per lo sforzo, poi riprendeva a camminare.
Il vento montava sempre più, rendendo il suo mantello una vela ingovernabile. Costava fatica sempre maggiore cercare di serrarlo intorno al collo.
Dei lamenti cavernosi giunsero alle sue orecchie amplificati dal vento. Appartenevano a delle creature aberranti che l’uomo conosceva e non desiderava incontrare.
Ripararono al più presto nel bosco, sebbene il cavallo ebbe qualche difficoltà a percorrere i primi passi all’interno della selva.
I suoni gutturali si fecero sempre più vicini, fino a che l’uomo non vide le imponenti sagome umanoidi attraversare il versante provenendo da parte opposta alla loro. I loro passi risuonavano attutiti dalla neve e interferiti dalla bufera. Se non si fossero nascosti, li avrebbero incontrati certamente, e allora solo un miracolo avrebbe potuto salvarli.
Attesero fino a che non giunse il silenzio. Rimase solo l’impeto della tempesta che sovrastava la notte. Ma in quella bolla l’uomo avvertiva la quieta consapevolezza di poter terminare il suo viaggio sereno.
Decise di proseguire il viaggio fra gli alberi. Ora il passo diveniva più cauto per via del terreno, irregolare sotto la neve. La selva attutiva la morsa del vento, ma il percorso scelto esigeva più forze, forze le quali sia l’uomo che l’animale avevano esaurito.
Si guardò attorno. Alla sua destra il terreno accennava a una depressione, mentre più avanti s’intuiva l’inizio di una scarpata. Strattonò appena le briglie della sua cavalcatura e la condusse fin là, giungendo a scorgere un incavo fra le poderose radici di una quercia, abbarbicato sull’orlo di un declivio.
Cavaliere e destriero trovano riparo nell’anfratto naturale. L’uomo si lasciò andare in quella nicchia di tepore, sollevato di avere accanto a sé l’animale.
Chiuse gli occhi, pronto ad abbandonare per sempre la sua vita, ma subito si riscosse. Ricordò qualcosa che pensieri più imminenti avevano obliato dalla sua mente. La sua mano, impacciata dal guanto, frugò tra gli strati di coperte, fino a trovare un sacchetto di pelle legato da un laccio di cuoio. L’uomo allentò il laccio con reverenza e rovesciò il contenuto del sacchetto sul palmo della mano.
Una scintilla di luce si accese subito, illuminando la notte. Poi, dopo il picco intenso, la luce sembrò lentamente affievolirsi, fino ad acquietarsi in un tremulo brillio. La stilla di luce pulsava come una lucciola che si librasse sulla sponda di lago.
Gli occhi dell’uomo sorrisero, come persi sulla scia di immagini lontane.
Sussultò. La parola divenne muta, un assolo di silenzio.
Ora poteva udire i musicisti intonare la sinfonia.

domenica 17 marzo 2013

Racconto "L'Imbottigliatore"



L’IMBOTTIGLIATORE

Era assidua e sferzante l’aria, sul promontorio. Sotto di esso, il mare si abbatteva impetuoso, agitato e trasportato da centinaia di destrieri di spuma. Le onde si schiantavano sulla nuda roccia e lanciavano miriadi di spruzzi che andavano ad infrangersi sulla parete ripida della sporgenza sopraelevata. Scomparivano un istante dopo, spazzati via dalla brezza fredda.
A fianco del rilievo costiero si stagliava una scultura naturale in pietra. Possedeva solamente quattro dita, ma somigliava vagamente a una mano; una mano di una qualche divinità dimenticata, protesa verso il mare abissale dai mille segreti inconfessabili. Eppure non fu alcun dio l’artefice di tale opera: era il vento, che frequente accompagnava i detriti delle più minuscole dimensioni ad abbattersi contro la roccia, soffiando nell’eternità.
Lungo la stradina inzaccherata che portava alla sporgenza scoscesa, intabarrato nel suo cappotto nero, l’uomo saliva. Arrancava con sforzo sempre più crescente mano a mano che si avvicinava alla stramaledetta sommità. Affondò il mento nel petto e chiuse gli occhi onde evitare l’aria salmastra, che irruente gli artigliava la pelle del viso.
I suoi passi si fecero pesanti tanto che i sandali gli parevano cementati al suolo. Lo sforzo compiva ogni volta che sollevava un piede pareva immane. Ed a ogni passo sentiva la sua salute affievolirsi. D'altronde era vecchio, pensò, e anche compiere il più semplice dei movimenti gli era faticoso come scalare la più alta delle vette.
Si fermò pochi istanti, giusto il tempo di recuperare un po’ di fiato, poi riprese ostinato la sua sfida. Perché la sua era chiaramente una sfida, una sfida a cui non si sarebbe mai tirato indietro. Troppo facile sarebbe stato abbandonare e darsi sconfitti, e a lui non erano mai piaciute le soluzioni facili, tipiche dei codardi. Cocci e sassi che rotolavano giù dalla pendenza gli s’insinuavano nei sandali e gli facevano sanguinare i piedi. Le ossa scricchiolarono, le ginocchia non ressero e l’uomo inerpicò. Riuscì a salvarsi la vita all’ultimo secondo, afferrandosi a un grosso masso sporgente prima di rotolare giù.
La sua vita era stata un percorso costellato di ostacoli come quel sentiero. Nella fatica e nel sudore di quel momento vedeva il fallimento, come lampi nella testa brevi flash, episodi di violenza e malavita. Ne aveva avuto abbastanza di quei ricordi. Se li scosse via agitando il capo, come se gli si fossero appollaiati in testa come mosche.
Il suo nome era Sanjuki e lì sopra lo attendeva qualcosa, anche se poteva intuire solo vagamente che cosa. Forse la sua salvezza… o la tanto agognata libertà? Di certo non sarebbe stato l’individuo con cui aveva un’incontro che gliel’avrebbe offerta. Ma mai dire mai.
Sopra il promontorio si trovava una panchina bianca, piena zeppa di piccole cavità: morsi di tarme. Nonostante l’ingordigia dei malefici animaletti rimaneva fissata al terreno. La violenza di quel vento freddo non l’aveva ancora spazzata via, ma in quella condizione non poteva durare ancora a lungo.
Il mare quel giorno era acerbo, la vastità tanto sconfinata da generare inquietudine nei pensieri di Sanjuki.
Seduto sopra la panchina stava seduto un uomo. Sotto il giaccone di pelle nera, s’intravedeva il colletto di una camicia azzurra. I suoi capelli brizzolati erano scompigliati dalla raffica continua. Sanjuki sapeva quanto quell’uomo tenesse all’ordine  e alla compostezza dei suoi capelli e sapeva che avrebbe voluto fossero sempre perfetti, irremovibili nel momento stesso in cui venivano modellati con il floshh, “lacca per mezzi-uomini”, come piaceva definirla lui. Walter era sempre stato un fissato dell’eleganza in ogni occasione: una caratteristica del suo carattere che tendeva a sfociare spesso nella paranoia, se essa non veniva compiaciuta. Eppure in quel luogo v’era qualcosa che annullava quell’esigenza estetica, che lo costringeva addirittura a far fare un piccolo sacrificio alla sua chioma sempre perfetta. Il paesaggio mozzafiato che dava quell’altura si poteva osservare in tutta la sua magnificenza, gli faceva superare ogni ostacolo, pur di poterlo contemplare.
Appoggiata su una gamba vi era la consueta valigetta scura che lo accompagnava ogni volta che veniva a far visita a Sanjuki. Sul davanti recava un disegno bianco di cerchi concentrici, su ognuno dei quali girava un piccolo cerchio, il simbolo di un pianeta, o forse un piccolo sistema solare. Si trattava del logo dell’agenzia per cui Walter lavorava e anche Sanjuki lo conosceva bene. Il simbolo degli Imbottigliatori.   
  




L’uomo si avvicinò lentamente a Walter, fino ad incontrarlo faccia a faccia. "Strano", pensò Sanjuki, "il suo viso non invecchia mai, invece il mio sembrava deteriorarsi ogni giorno di più. Forse è per via del tempo, che in un pianeta sotto vetro come quello in cui abito, scorre molto più in fretta del normale…"
«Ti ostini a farci incontrare sempre in questo maledetto punto, eppure tu sai benissimo che ho l’artrite alle ginocchia e non sono più aitante come un tempo? Tua madre non ti ha mai insegnato a portare rispetto per gli anziani?» lo rimproverò Sanjuki mentre si sedeva al suo fianco.
Walter gli sorrise. I suoi denti e i suoi occhi lampeggiarono. «Scusami Sanjuki, è che sono un sentimentale.»
«Un sentimentale?» borbottò Sanjuki, come se quella parola lo irritasse non poco. «Non so cosa ci troverai mai di bello in questo pianetucolo schifoso. Puah!» Il vecchio, al termine della frase, sputò impunemente a terra.
«Il solito apatico» commentò l’altro. «Noi ti regaliamo un pianeta bello e perfetto come questo e tu non sai fare altro che lamentartene ogni volta.»
«Apatico? Come cazzo parli?»

«Significa che sei insensibile alle bellezze della natura. Ad esempio, cosa provi nell’osservare questa agitata battaglia?» Per rendere più comprensibile le sue parole indicò la plumbea distesa d’acqua davanti a sé.

«Mi tremano i denti e le ossa. È questo gelo… e le gocce fredde che mi cadono addosso continuamente come punte di ghiaccio certo non aiutano a migliorare la mia salute.»

Walter sbuffò. «Non intendevo in quel senso. Sai cos’è il sentimento del sublime? »

«No» ammise il vecchio senza provare vergogna.

«Vari cervelloni hanno tentato di darne una definizione personale. Ma quello che riesce ad essere più breve e coinciso è Schopenhauer, un filosofo nato nel pianeta Terra circa settemila anni or sono. Secondo lui il sentimento del sublime è il piacere che si prova osservando la potenza o la vastità di un oggetto che potrebbe distruggere chi lo osserva. Parole migliori non avrei trovato per descrivere lo spettacolo naturale qui davanti ai miei occhi.»
Sanjuki borbottò qualcosa senza smettere di osservare il mare. Poi parlò con più chiarezza. «È perché non lo vedi tutti i giorni come faccio io. Sennò ora ti verrebbe il disgusto al solo pensiero d’udire il suono di un’altra onda infrangersi.»
«Certo…» disse Walter con una certa inflessione di sconforto nel tono della voce.  «Dopo tutto il tempo che ti conosco, e ancora mi ostino a parlare con te di queste cose!»
«Vai dritto al punto, Walter, o come farei bene a chiamarti:  imbottigliatore dei miei stivali! »
Walter cercò di celare inutilmente una certa irritazione per quelle insolenti parole. «Non chiamarmi
imbottigliatore, vecchio! Sono un funzionario governativo, non un ambulante da quattro soldi!»
«Vecchio… E pensare che un tempo, quando mi imprigionarono qui, avevo più o meno la tua stessa età. Non è che per caso ti sia fatto installare qualche protesi?»
Walter scrollò le spalle mentre gli rispondeva «no, è solo uno degli svantaggi di vivere in una palla di neve. A me sinceramente non dispiace affatto l’idea.»
«Certo che no, come è ovvio che sia. Ti conosco, io: vorresti veder morire in fretta tutti i criminali che hai sbattuto in gattabuia.»
«Può darsi che sia come dici tu. Ma questa è una soluzione rapida ed efficiente. Non viola i diritti inalienabili dell’uomo descritti nella Nuova Costituzione di Salensya e non è brutale come una oramai obsoleta pena di morte, anche se in realtà sortisce più o meno lo stesso effetto, agli occhi di quelli che vivono al di là del vetro.»
«Eppure tu parli come se io fossi già morto.»
«Al massimo tra una anno sarà così» constatò Walter, come se stesse descrivendo un semplice dato statistico. «Che nel tuo piccolo pianeta corrisponderanno ad altri dieci anni. Eppure l’aria salata di Requebeq VI ha reso le tue ossa forti per molti anni. Dovresti esser grato ad essa per averti fatto sopravvivere tanto a lungo.»
«Risparmiami le tue stronzate e vai dritto al punto» lo attaccò il vecchio. «Perché c’è un punto vero? O sei venuto qui solo per ridermi in faccia?»
«Effettivamente, non sarei qui se non ci fosse un valido motivo. Viaggiare nel rimpicciolitore particellare più essere molto stancante ed evito di farlo, se non è assolutamente necessario.»
«Riguarda la mia famiglia? È successo qualcosa a mia figlia?» Chiese con una certa preoccupazione Sanjuki. «Cazzo, se gli è successo qualcosa io…»
«Non preoccuparti, tua figlia sta benissimo. Che io sappia, lavora ancora al Centro di Ricerche Biomolecolari ad Impatto Sonico nella città di Salandris, nel pianeta Hootor X. Inoltre, il marito è un rinomato ricercatore nel campo dei cervelli positronici. Stanno tutti bene, Sanjuki, sia fisicamente che economicamente.»
«Devono averla promossa. L’ultima volta che ebbi sue notizie doveva ancora completare il suo stage di tre anni.»
Walter si concesse un rapido sorriso. «Sì, ora è ufficialmente un’ottima ricercatrice e una ragazza in gamba, senz’ombra di dubbio. Non come quel farabutto di suo padre ergastolano.»
«Vi ha mai chiesto di me? Recentemente, intendo.»
L’imbottigliatore scosse la testa. «Anche se lo facesse, noi non potremmo dir nulla.»
Il vecchio abbassò lo sguardo, atterrito dalla sconforto. «Vorrei vederla per l’ultima volta… Solo per dirle addio… »
Walter tossì, forse perché rifiutava di sentir avanzare simili richieste. Gli sarebbe stato impossibile soddisfarle, nemmeno se lo avesse voluto. «…Non sono qui per questo, Sanjuki. Devo dirti delle cose. Delle notizie dall’esterno.»
«Esterno? Notizie dell’universo reale?»
«Non chiamarlo reale. Questo sistema solare è reale quanto tutti gli altri, solo… più isolato. Comunque percepisco la tua incredulità: sappiamo entrambi che nessuna informazione che non riguardi i diretti consanguinei dei detenuti può o è permesso che trapeli a coloro che scontano una pena all’interno delle palle di neve. Ma abbiamo dovuto fare un’eccezione.»
«E con ciò?» Sanjuki lo afferrò per un braccio. «Avanti, non tenermi sulle spine.»
«Prima però devi lasciarmi fare una premessa. Vedi, dethvedì scorso, il Partito Conservatore è caduto.» Walter emise un respiro profondo, poi riprese. «Un evento che ha scosso tutto l’universo, per via della sua importanza storica e del fortissimo impatto che avrà una simile vittoria da parte dell’opposizione nella vita di ogni singolo essere umano, ma non solo. Il Governo Galattico ha indetto un nuovo referendum per eleggere il nuovo partito che dovrà gestire le relazioni interne ed interuniversali della razza umana. Il risultato delle votazioni verrà reso noto tra una settimana, ma questa è una faccenda di secondaria importanza, al momento.»
«Pensi che me ne importi dei vostri trastulli politici? Tutto ciò non mi tocca affatto. Io morirò  intrappolato tra i vetri di questa cella planetaria» osservò aspro Sanjuki.
«Invece credo che sotto alcuni aspetti riguardino anche te… e noi.»
«Che c’entrate voi?»
«Poiché facciamo parte di un’agenzia che serve il governo, lavoreremo per chiunque salirà al potere.» Poi, forse rendendosi conto di non aver dato una spiegazione sufficientemente esaustiva, l’imbottigliatore continuò: «ma ora che i conservatori e le loro ideologie moderate sono cadute, tutti gli altri partiti promuoveranno la ricerca scientifica in tutte le sue forme, pur di ottenere il consenso della maggioranza planetaria. Anzi, i vari laboratori, come anche quello in qui lavora tua figlia, hanno già cominciato a intensificare la proprie attività di ricerca di nuove tecnologie, hanno acquisito nuovi ricercatori oltre il numero massimo consentito dalla precedente amministrazione e commissionato la costruzione di macchinari avanzati che nel precedente governo erano stati totalmente aboliti.»
Il vecchio scosse lievemente il capo. «Continuo a non capire.»
«Sto parlando di clonazione, Sanjuki. Qualcosa di cui forse avrai sentito parlare da qualche erudito o letto negli antichi libri di storia, ma di cui i moderni mass media, fino a pochi giorni fa, hanno praticato l’oscurantismo più inflessibile» spiegò con fare saccente Walter.
Il vecchio sogghignò. «Sì, ne ho sentito parlare, ora che mi ci fai pensare. Se non ho capito male, volete fare un doppione di me da usare per i vostri divertimenti? Non vi facevo dei pervertiti.»
«Non dire stupidaggini. Questo non avrebbe senso. Permettimi di dire che comunque il tuo nozionismo riguardo la clonazione è alquanto arcaico.»
Ti ho detto che ne ho solo sentito parlare, tutto qui. Non credevo nemmeno fosse possibile, fare gli uomini come con lo stampino, tutti uguali.»
Walter accennò di nuovo un sorriso al suo interlocutore. «Ed è qui che ti sbagli. Tu intendi per “clonazione” la sola idea di una copia di un uomo, di un essere vivente, o anche volendo, di un alieno. Ma possiamo estendere il termine anche ad altri ambiti, come ad esempio a quello… della riproduzione di oggetti. Ma non stiamo più parlando di genetica, bensì di un principio fisico legato al concetto di scambio equivalente.»
«E cioè?»
«Scambio in termini elementari, di composizione. Un concetto che si avvicina a quello di trasmutazione, ma più concreto. A livello molecolare, ogni costituente dell’oggetto che si intende replicare viene, sotto profilo teorico, scardinato. Poi, viene restituito come massa, e la macchina lo rielabora automaticamente costruendolo come oggetto fatto e finito.  Una copia esatta sotto ogni punto di vista, voglio dire, e questo ci permetterebbe…»
Sanjuki lo interruppe. «Questo mi sembra già più interessante. Potreste arrivare a clonare i vostri crediti galattici all’infinito!»
Walter piegò l’angolo della bocca in un ghigno prezzante, che nascose immediatamente. «Che idea… alquanto materialista! Ed inutile, visto che come sai i crediti sono diventati concetti puramente astratti, e ora possono essere trasmessi solamente via telematica. Ma non ti rendi conto di quello che possiamo fare ora con questa tecnologia? Devo dirtelo o ti bastano gli indizi?»
Sanjuki diede mentalmente una spolverata alle lezioni di fisica spaziale cui era stato obbligato a frequentare da giovane. «Potreste clonare, be’… i pianeti ed i sistemi solari mi paiono ancora un po’ troppo grandi, a meno che i raggi cosmici a cui i pianeti sono continuamente sottoposti possano essere utilizzati come veicolo per la propagazione di raggi… come diavolo potrei chiamarli?»
«Intendi dire replicanti?» suggerì Walter.
«Sì, quelli lì…»
«No, non esiste una simile tecnologia per ora. I soggetti viventi sono impossibili da duplicare, dato che non siamo ancora in grado di dire di cosa sia costituito l’elemento x, i ventuno grammi che i fanatici religiosi si ostinano ad attribuire al peso dell’anima. Siamo però recentemente entrati in possesso di quella che è ora la più avanzata macchina per clonazioni di oggetti non viventi esistente. Ma vedi, l’oggetto più grande che può duplicare corrisponde alla massa di un pallone da Snorfair, circa. Vuoi altri indizi o devo dirti proprio tutto io? Comunque c’eri andato vicino con la storia dei pianeti e dei sistemi.»
«Io… Non vorrete mica…» Sanjuki biascicò parole sconnesse, l’incredulità era tanta in lui.
«Come facciamo noi funzionari governativi per imprigionare i criminali della peggior specie come te, Sanjuki?»
Il vecchio emise un lungo sospiro.«Voi imbottigliatori, prendete i più piccoli sistemi solari dell’universo, quelli in cui gira almeno un pianeta intorno a una stella, in modo che possa garantire la sopravvivenza di un essere umano, su cui poi ovviamente abbandonate il prigioniero, in balia di un territorio spesso ostile e del tutto sconosciuto. Con i raggi gamma del rimpicciolitore, sondate completamente il sistema in modo tale da “imbottigliare” questi micro-universi in quelle stupide, fragilissime palle di neve, che appena scivolano via dalle vostre mani incompetenti potrebbero infrangersi al suolo in mille pezzi e così decretare la fine dell’esistenza di quell’universo in miniatura. Da come volete far credere, il procedimento serve a evitare spiacevoli evasioni, e questo è il metodo migliore per metterci tutti quanti sotto chiave in tutta sicurezza. E voi vorreste clonare questi universi attraverso questa macchina che prima non vi era consentito usare!»
«Esatto. Non è che vorremmo, l’abbiamo già fatto.» Così Walter afferrò la valigetta ai suoi piedi, la poggiò sulle gambe, alzò i ganci e la aprì. All’interno vi era solo una sfera perfetta, della grandezza di una boccia, la cui superficie era di vetro trasparente. All’interno Sanjuki intravide l’immagine di un cielo stellato in miniatura, su cui volteggiavano un paio di pianeti attorno ad un piccolo sole. Walter mise l’oggetto nelle mani di Sanjuki, in modo che potesse esaminarlo al meglio.
«Che-che cos’è?»
«Il tuo micro-sistema solare sotto vetro, ovviamente. Non sarebbe stato possibile portarlo fino a te se non l’avessimo prima replicato.»
«Oh, non posso crederci» balbettò Sanjuki con versi strozzati. «Sto tenendo tra le mani… pianeti? Interi, enormi pianeti nel palmo delle mani… » Effettivamente, all’interno della palla di neve, poteva percepire ad occhio umano lo spostamento dei mondi, il forte brillio della stella centrale su cui ruotavano a velocità quasi impercettibile. Un vero e proprio  sistema solare vibrante, vivo, eppure al tempo stesso così piccolo ed insignificante…
«È un’emozione irresistibile, vero? L’onnipotenza fra le dita…» Walter sembrava serbare molto orgoglio nei confronti di quel piccolo gingillo.
«Ma allora qui dentro c’è la copia di questo stesso identico pianeta? C-c’è un altro me, là dentro?»
«No, per fortuna. Ho detto che è impossibile replicare la vita. E questa non è nemmeno una stella diversa da quella su cui stiamo ora. Ti rendi conto di quale casino sarebbe se fosse il contrario? Una situazione del genere sancirebbe l’esistenza di universi alternativi, e ciò potrebbe rivelarsi un qualche cosa di ingestibile, non solo per noi, ma per chiunque. Se fosse come dici tu, in breve tempo potremmo avere copie e copie di un grosso sistema solare, tanto che non ci renderemmo nemmeno conto se la realtà che stiamo vivendo sia quella originale, o sia quella di un altro universo imbottigliato. In qualunque caso, non sapremmo mai quale sarebbe la realtà, poiché ognuna sarebbe tale e quale all’altra, come un’infinita, inquietante serie di matrioske.»
«Non ho capito molto di quello che hai detto.»
«Ho cercato di dirtelo nel modo più semplice che conosca, sapendo che se ti avessi parlato di casuali e variabili, mi avresti capito ancora meno. Ad ogni modo, quella che hai tra le mani non è in realtà la copia del tuo micro universo, bensì la copia della palla di neve in cui esso è contenuto. Eviterei di agitarla troppo, perche se ti dovesse cadere tra le mani, faremmo la stessa fine di un asteroide la cui traiettoria prossima è un buco nero.»
Il vecchio sgranò gli occhi. «Cosa? Potevi dirmelo prima! Cavolo, stavo anche pensando di vedere che effetto faceva vedere la scomparsa di un sistema solare che non fosse il mio!»
«Puoi giocarci quanto vuoi, ma non prima che io me ne vada.»
«Cosa? vuoi lasciarmelo? E cosa dovrei farmene?»
Walter agitò la mano con atteggiamento sprezzante. «Quello che vuoi. Di certo non potresti usarlo per fuggire da qui, caro Sanjuki. Ma conosco uomini dalla misera esistenza ai quali, non in grado di porre fine alla propria vita per mancanza di fegato, farebbe comodo un gingillo come questo.»
«E tu mi reputi una persona del genere?»
«No, al contrario. Ma i miei capi hanno deciso che sia giusto così, che si possa fare pulizia di certa gente più in fretta senza violare la legge. Ma questo conta poco, se ci pensi bene: tu per noi durerai ancora per poco. Il fatto è che ci sembrava giusto che gli ergastolani avessero l’opportunità di un suicidio… legale. Un atto indolore, definitivo, senza mezze misure. Ma non saltare subito alle conclusioni e cerca di comprendere: nel nostro universo ogni pianeta abitato dispone di ospedali, ambulanze, medici, che in caso di morti mancate possono intervenire nella speranza di salvare l’aspirante suicida. Qui non avete nulla, non sapreste mai se, dopo esservi lanciati dalla scogliera, invece di spappolarvi il cervello rimarreste paralizzati,  ritardando in maniera estremamente più lenta e dolorosa il vostro decesso. Nulla è sicuro, ma non se aveste tra le mani un simile oggetto… »
«Basta!» si agitò Sanjuki, che stava cominciando ad avere il voltastomaco. «Ho capito, ho capito. Credete che gente come me si penta delle proprie cattive azioni e che voglia metter fine alla propria vita non sopportandone il rimorso, pur sapendo che questa è già in qualche modo una non-esistenza, dato che siamo già stati tutti quanti messi sottovuoto, come le sardine, privi di qualsivoglia contatto con la realtà della Galassia. Questo non lo accetto, ho ancora una dignità, seppur poca. E la conservo gelosamente. Tieni, non la voglio, la tua opportunità!» Premette quindi la sfera al petto dell’Imbottigliatore, e la lasciò andare, in modo che questa gli cadesse fra le gambe.
Walter l’afferrò con entrambe le mani, e la pose delicatamente accanto a sé. «Volere dei miei capi, ma, mi dispiace, non puoi farla ritornare indietro. Noi abbiamo già l’originale che, nel caso tu rompessi la tua, scomparirebbe anch’essa. Te lo dico solo per dovere d’informazione, sai, siamo molto attenti a queste cose.»
«Ma, allora, cosa dovrei farmene?»
«Usala come addobbo,» si limitò a suggerirgli «ti sei costruito una bella casetta, poco distante da qui. Spero non precaria come questa panchina, però, sennò potrei trovarla a pezzi la prossima volta che verrò a farti visita.» Poi sembrò prestar attenzione all’ora segnata sul suo orologio allacciato al polso, che improvvisamente cominciò a squillare come una sveglia. «Oh, è già ora che me ne vada.»
«Sciocchezze, so che non verrai mai più. Questo è il nostro ultimo incontro, vero Walter? »
«Se lo sai già, perché chiedermelo?»
«Volevo sentirlo dire da te. Almeno salutami come si deve!»
«Temo sia tardi, oramai» si giustificò con finto tono di rammarico. «Ho un tabella severa da rispettare, e dopo di te ho altri diciotto galeotti a cui concedere la  stessa opportunità» disse Walter, congedandosi con un alquanto insolito saluto militare.
Il vecchio gli puntò contro un dito accusatore. Mentre parlava la sua mano tremava leggermente. «Maleducato, maleducato come sempre. Ma spero tua madre ti rimproveri quando ti comporti così.»
«Mia madre è ben arzilla. E più giovane di quanto tu possa immaginare. I vecchi come te, Sanjuki, li tratta allo stesso mio modo.»
«Tu… tu sei un gran pezzo di…»
«Abbi cura di te Sanjuki» lo interruppe Walter prima che potesse terminare il suo insulto.
Sanjuki non si diede per vinto. «Allora concedimi soltanto questo, Walt, un ultimo abbraccio. Per dirci addio. »
L’imbottigliatore sorrise e si limitò a battergli sulla spalla, un po’ stupito dal repentino cambio di umore del vecchio. «Avanti, so che non lo vuoi davvero. Non da me, almeno.»
«Sei l’ultimo uomo che vedrò in vita mia. Dovrò accontentarmi.»
Walter parve dubbioso «Strano che tu non trova la cosa poco… virile. »
«Avanti» Sanjuki finse un sorriso. « In fondo quando eri solo un imberbe sbirro che cercava di farsi un nome e mi davi la caccia, era come se fossimo stati quasi amici.»
Walter sbuffò, ma non si oppose alla stretta di quel vecchietto che, in fin dei conti, non aveva nessuno che gli facesse compagnia. «Sei un bravo ragazzo» gli disse Sanjuki  all’orecchio con affetto quasi innaturale. Poi si staccò da lui.
Si osservarono per un poco, poi Walter decise che era momento di andarsene. Controllò di nuovo l’orologio, annuendo quando su questo comparve il volto di una signorina in ologramma che lo avvertiva che sarebbe stato trasportato seduta stante a bordo della nave governativa. Scomparve così inghiottito da un’onda violacea che lo avvolse ammantandolo come una nube. Il vento portò con sé i residui di foschia, senza lasciare nulla là, nel punto dov’era stato seduto poco prima l’imbottigliatore.

Sanjuki prese fra le mani la palla di neve e rifletté. Quali sarebbero state ora le sue prossime mosse?
I poveri stolti e grassi burocrati lo indirizzavano a un suicidio premeditato… i suoi pensieri sfregavano con la coscienza e con il suo Io recondito, producendo riflessioni avvilenti. "Piazza pulita, dicono. Pulizia. Siamo solo spreco di denaro pubblico, in fondo, no? Questa palla di neve ne è la prova concreta." Poggiò la magica sfera sopra alla panchina. Una posizione alquanto instabile. Ma sapeva bene ciò che faceva.
Diede un ultimo sguardo al mare cattivo, spesso soggetto principale del suo odio. Abbassò poi lo sguardo sulle sue mani. Non erano vuote come lo erano state quando era salito fin su del promontorio...
"Morire… oppure…"
Capitava che alle volte un uomo dovesse fare delle scelte, decidere di cambiare il suo destino, rischiando anche la vita per questo. Se avesse fallito nell’estrarre dalla fondina di Walter il generatore particellare di sicurezza, sarebbe stato spazzato via dal fulminatore riposto nell’altra estremità della cintura.

Walter non avrebbe esitato… nemmeno un secondo, e fanculo ai sentimenti. “ho  fatto fuori il vecchio” avrebbe poi dichiarato l’imbottigiatore al suo questore (un grasso burocrate anch’egli, doveva essere) “è arso prima che potesse schiacciare il pulsante di teletrasporto e fuggire chissà dove. Non me lo sarei mai perdonato se un pericoloso criminale gironzolasse per la galassia a causa mia." Certo, e gli asteroidi erano di plexiglass! Ma chi voleva prendere in giro? Se Sanjuki fosse riuscito a scappare a causa di una distrazione da parte di Walter (sfilato via da un vecchio decrepito!), come minimo sarebbe stato declassato all’ultimo grado della gerarchia dei piedipiatti. E gli conveniva che gli piacesse dirigere il traffico, perché era quello che gli avrebbero fatto fare una volta scoperta l’evasione. "In fin dei conti mi era quasi simpatico. Un figlio di puttana simpatico."

Ed era vero che dopotutto il tempo cancellava le ferite della mente. Ma in quel digradarsi del suo stato d’animo a uno stato di malinconica accettazione, i sogni di Sanjuki furono sostituiti da una sorta di riscatto. E tutto era avvenuto in un poco più di tre secondi.

«È giusto sognare, ma è necessario anche svegliarsi al momento giusto.»

Prima era stato confuso, poi dubbio. Ma mano a mano che se lo immaginava mentre discuteva con Walter, diventava sempre più concreto. E dalla concretezza iniziale il vecchio ne aveva sfornato un piano, semplicissimo. Doveva solo accedere al generatore di particelle dell’agente governativo. Quando gli si fosse presentata l’occasione giusta, mediante le agili movenze di borseggiatore professionista come era stato in un’altra vita, avrebbe recuperato l’unico oggetto che poteva permettergli di evadere dal microuniverso imbottigliato. Successivamente, si sarebbe infiltrato all’interno della nave governativa (doveva solo scegliere bene le coordinate in cui sarebbe apparso nei corridoi dell’astronave, onde evitare spiacevoli equivoci) per poter così scorrazzare libero alla ricerca di una navicella o di un piccolo incrociatore galattico per poi volare via lontano, invisibile ai sensori di avvicinamento dei quali ogni struttura governativa era dotata.

Il pianetucolo non sarebbe stata mai la sua tomba. "Tranquille guardie, non sarebbe necessario nessun suicidio per liberarvi in posto nella vostra spaziosa cella. Che illusi! Il vostro amico Sanjuki avrebbe saputo utilizzare quella nuova disposizione di eventi a suo vantaggio. " Ed il bello era che erano stati proprio loro, a offrirgli quell’opportunità!
Però avrebbe dovuto distruggerla quella cella, quindi a pensarci bene nemmeno gli sbirri avrebbero tratto alcun beneficio dalla sua evasione. Perché solo se il suo pianeta fosse stato distrutto, tutti avrebbero potuto credere alla storia della sua dipartita, del suo suicidio. E nessuno avrebbe mai pensato a una fuga, mentre Walter se ne sarebbe stato zitto riguardo al fatto di aver perduto il suo generatore particellare, evitando una colossale figura di merda.
Sanjuki ritornò con un certo disturbo alle questioni di immediata rilevanza. Stretto fra le sue mani tremolanti, il calcio del generatore riportava, appena sotto del numero di serie, il pulsante di accendimento. Lo guardò con desiderio, ed era bene che lo facesse, perché ora il vento si faceva sempre più violento e insistente. La palla di neve vacillava sotto il volere dei suoi respiri profondi.
"Tutto quello che desidero è andarmene via da qui. Da questo mare, e da tutto quanto questo freddo."
E premette il pollice sul pulsante. Il contatto fece accendere una spia rossa sulla sommità dell’aggeggio. Rimase dello stesso colore per all’incirca tre secondi, poi si spense.  Delle parole dal suono robotico uscirono da una sorgente situata sul rigonfiamento inferiore del calcio. Sanjuki non riuscì a decifrarne il significato. Non successe nient’altro.
Colto da un terribile presentimento, riprovò a compiere la stessa azione, stavolta avvicinando l’orecchio alla sorgente sonora. La spia rossa si accese un'altra volta. Le parole uscirono nuovamente dal generatore, stavolta comprensibili ai suoi orecchi. «Lettura impronta digitale effettuata. Autorizzazione negata.»
Sanjuki aprì la bocca, ma non uscì alcun suono eccetto un pallido «ma…»
In quell’esatto momento, il vento, in una folata di selvaggia irruenza, scaraventò la sfera di vetro giù dalla panchina, e poi ancora più giù, via sul sentiero, sbattendo sulle rocce e sul pietrisco. Il vecchio avvertiva le conseguenza del frantumarsi in schegge della sua superficie ogni volta che un balzo la faceva volare, effetto che si riverberava nell’ambiente attorno a lui con conseguenze spaventose. Pareva di trovarsi nel bel mezzo di uno tsunami. La terra ricevette dei forti scossoni, la boscaglia ondeggiava al ritmo del cielo, sfumato e sfrangiato dal cataclisma generale. Il mare si abbatté sulla roccia con grattacieli di onde che travolsero Sanjuki. Ancora sotto choc e imbibito di incredulità, cercava disperatamente di mettersi in salvo, ma venne sommersero ancor prima di compiere un passo. Le onde sballottarono il suo corpo con violenza tra le correnti, come volessero cercare vendetta nei confronti del suo odio sviscerale per il mare. Gli spezzarono le vertebre e varie ossa come fossero ramoscelli. Un forte colpo gli arrivò sul cranio e lo fracassò, spargendo sangue e materia cerebrale tra la schiuma e i flutti.
Nel momento in cui la sfera si frantumò completamente, il vecchio era già morto, sepolto dagli abissi infiniti del sublime. Concetto che non aveva più senso di esistere, in un universo oramai ridotto a un misero mucchietto di schegge di vetro.