“Nessuna speranza, nessun amore, nessun lieto fine.
Prima e dopo di me, solamente lo schifo di cui è intriso il mondo.”
Epitaffio inciso sulla tomba di
ser Flubert Seymour.
PROLOGO:
IL CAVALIERE MORENTE
Silenzio.
È ciò che
accompagna la morte.
La consapevolezza della fine non giunge mai, come se il pensiero s’arrestasse di colpo.
Silenzio.
Non si sente più
il battito. Vi è una quiete improvvisa, vuota, che riecheggia accompagnata dal
vento, spirando attraverso gli alberi, facendo vacillare gli arbusti più
giovani. Vi è il rassicurante sapore di casa, di ricordi di un’intera vita
vissuta, di foglie autunnali che vorticano lungo un viale deserto, di ragazze
sudate che danzano durante la festa di mezza estate. Ricordi di conversazioni e
di risa che avrebbero riempito la solitudine dell’anima. Il fracasso e gli
schiamazzi nelle buie serate invernali.
Silenzio. Nessuna musica. Ora è più
forte nella mente.
Silenzio. Un vuoto che riempie quello
più grande. Presto arriveranno altri suoni, esploderanno come in un’orchestra
di fanfare.
Silenzio. Odore di carcassa. Ondate
soffocanti di putrefazione. La paura che paralizza i muscoli e inaridisce la
gola.
Odore di fiori
recisi e regalati ad una donna. Il porticato e il giardino odoroso di
gelsomino. Odore della pelle di lei, liscia come la seta, il supplizio di non
poterla più accarezzare. Il biondo dorato dei suoi capelli, fasci che trattengono
la luce. I suoi occhi scuri e vivaci, la curiosità che proviene da chi ha
voglia di scoprire cose nuove.
Silenzio. Avvolge tutto dentro di sé. Un
oceano profondo e vasto come il gelo che annuncia la fine del mondo. Pesante
come un macigno.
Il sapere di
essere solo basterà a calmarlo, a riportarlo alla ragione. Lontano, si fa
sempre più lontano il fischio del vento.
Gli occhi si
spalancarono nella coltre bianca.
Un alto manto di
neve ricopriva ogni cosa. Il vento spazzava il fianco della collina, ululando
nella tormenta. Gli alberi appesantiti dalle coltri lasciavano cadere falde di
neve con tonfi sordi.
Solo lui osava
sfidare la furia imperversante della natura. Procedeva lentamente nella neve
lungo un sentiero immaginario che seguiva il margine del bosco, ai piedi
dell’altura.
Strati di coltri
ricoprivano il suo corpo, mentre la bruna cavalcatura lo precedeva arrancando
stordita dal gelo.
Mancavano pochi
giorni al sorgere dell’inverno, e il clima avrebbe raggiunto le soglie più
basse dell’anno. Sugli ultimi contrafforti dei Monti della Fiamma Bianca, il
freddo riusciva a rendere gelata pure l’acqua corrente. Chi in quel periodo
lasciava i Regni Spezzati per entrare nelle terre dei Re Dimenticati avrebbe
facilmente incontrato la morte sul suo cammino.
Il destriero dal
manto punteggiato di cristalli gelati si spingeva lento come il suo padrone, il
battito del suo cuore che diveniva pian piano sempre più debole.
Spesso la marcia
dell’uomo si arrestava. Alzava la testa come fosse in ascolto di qualcosa o per
distendere la schiena tesa per lo sforzo, poi riprendeva a camminare.
Il vento montava
sempre più, rendendo il suo mantello una vela ingovernabile. Costava fatica
sempre maggiore cercare di serrarlo intorno al collo.
Dei lamenti cavernosi
giunsero alle sue orecchie amplificati dal vento. Appartenevano a delle
creature aberranti che l’uomo conosceva e non desiderava incontrare.
Ripararono al
più presto nel bosco, sebbene il cavallo ebbe qualche difficoltà a percorrere i
primi passi all’interno della selva.
I suoni
gutturali si fecero sempre più vicini, fino a che l’uomo non vide le imponenti
sagome umanoidi attraversare il versante provenendo da parte opposta alla loro.
I loro passi risuonavano attutiti dalla neve e interferiti dalla bufera. Se non
si fossero nascosti, li avrebbero incontrati certamente, e allora solo un
miracolo avrebbe potuto salvarli.
Attesero fino a che non giunse il
silenzio. Rimase solo l’impeto della tempesta che sovrastava la notte. Ma in
quella bolla l’uomo avvertiva la quieta consapevolezza di poter terminare il
suo viaggio sereno.
Decise di proseguire
il viaggio fra gli alberi. Ora il passo diveniva più cauto per via del terreno,
irregolare sotto la neve. La selva attutiva la morsa del vento, ma il percorso
scelto esigeva più forze, forze le quali sia l’uomo che l’animale avevano
esaurito.
Si guardò
attorno. Alla sua destra il terreno accennava a una depressione, mentre più
avanti s’intuiva l’inizio di una scarpata. Strattonò appena le briglie della sua cavalcatura e la condusse fin là, giungendo a scorgere un incavo fra le poderose radici di una quercia,
abbarbicato sull’orlo di un declivio.
Cavaliere e
destriero trovano riparo nell’anfratto naturale. L’uomo si lasciò andare in
quella nicchia di tepore, sollevato di avere accanto a sé l’animale.
Chiuse gli
occhi, pronto ad abbandonare per sempre la sua vita, ma subito si riscosse. Ricordò
qualcosa che pensieri più imminenti avevano obliato dalla sua mente. La sua
mano, impacciata dal guanto, frugò tra gli strati di coperte, fino a trovare un
sacchetto di pelle legato da un laccio di cuoio. L’uomo allentò il laccio con reverenza
e rovesciò il contenuto del sacchetto sul palmo della mano.
Una scintilla di
luce si accese subito, illuminando la notte. Poi, dopo il picco intenso, la
luce sembrò lentamente affievolirsi, fino ad acquietarsi in un tremulo brillio.
La stilla di luce pulsava come una lucciola che si librasse sulla sponda di
lago.
Gli occhi
dell’uomo sorrisero, come persi sulla scia di immagini lontane.
Sussultò. La
parola divenne muta, un assolo di silenzio.
Ora poteva udire
i musicisti intonare la sinfonia.
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