domenica 17 marzo 2013

Racconto "L'Imbottigliatore"



L’IMBOTTIGLIATORE

Era assidua e sferzante l’aria, sul promontorio. Sotto di esso, il mare si abbatteva impetuoso, agitato e trasportato da centinaia di destrieri di spuma. Le onde si schiantavano sulla nuda roccia e lanciavano miriadi di spruzzi che andavano ad infrangersi sulla parete ripida della sporgenza sopraelevata. Scomparivano un istante dopo, spazzati via dalla brezza fredda.
A fianco del rilievo costiero si stagliava una scultura naturale in pietra. Possedeva solamente quattro dita, ma somigliava vagamente a una mano; una mano di una qualche divinità dimenticata, protesa verso il mare abissale dai mille segreti inconfessabili. Eppure non fu alcun dio l’artefice di tale opera: era il vento, che frequente accompagnava i detriti delle più minuscole dimensioni ad abbattersi contro la roccia, soffiando nell’eternità.
Lungo la stradina inzaccherata che portava alla sporgenza scoscesa, intabarrato nel suo cappotto nero, l’uomo saliva. Arrancava con sforzo sempre più crescente mano a mano che si avvicinava alla stramaledetta sommità. Affondò il mento nel petto e chiuse gli occhi onde evitare l’aria salmastra, che irruente gli artigliava la pelle del viso.
I suoi passi si fecero pesanti tanto che i sandali gli parevano cementati al suolo. Lo sforzo compiva ogni volta che sollevava un piede pareva immane. Ed a ogni passo sentiva la sua salute affievolirsi. D'altronde era vecchio, pensò, e anche compiere il più semplice dei movimenti gli era faticoso come scalare la più alta delle vette.
Si fermò pochi istanti, giusto il tempo di recuperare un po’ di fiato, poi riprese ostinato la sua sfida. Perché la sua era chiaramente una sfida, una sfida a cui non si sarebbe mai tirato indietro. Troppo facile sarebbe stato abbandonare e darsi sconfitti, e a lui non erano mai piaciute le soluzioni facili, tipiche dei codardi. Cocci e sassi che rotolavano giù dalla pendenza gli s’insinuavano nei sandali e gli facevano sanguinare i piedi. Le ossa scricchiolarono, le ginocchia non ressero e l’uomo inerpicò. Riuscì a salvarsi la vita all’ultimo secondo, afferrandosi a un grosso masso sporgente prima di rotolare giù.
La sua vita era stata un percorso costellato di ostacoli come quel sentiero. Nella fatica e nel sudore di quel momento vedeva il fallimento, come lampi nella testa brevi flash, episodi di violenza e malavita. Ne aveva avuto abbastanza di quei ricordi. Se li scosse via agitando il capo, come se gli si fossero appollaiati in testa come mosche.
Il suo nome era Sanjuki e lì sopra lo attendeva qualcosa, anche se poteva intuire solo vagamente che cosa. Forse la sua salvezza… o la tanto agognata libertà? Di certo non sarebbe stato l’individuo con cui aveva un’incontro che gliel’avrebbe offerta. Ma mai dire mai.
Sopra il promontorio si trovava una panchina bianca, piena zeppa di piccole cavità: morsi di tarme. Nonostante l’ingordigia dei malefici animaletti rimaneva fissata al terreno. La violenza di quel vento freddo non l’aveva ancora spazzata via, ma in quella condizione non poteva durare ancora a lungo.
Il mare quel giorno era acerbo, la vastità tanto sconfinata da generare inquietudine nei pensieri di Sanjuki.
Seduto sopra la panchina stava seduto un uomo. Sotto il giaccone di pelle nera, s’intravedeva il colletto di una camicia azzurra. I suoi capelli brizzolati erano scompigliati dalla raffica continua. Sanjuki sapeva quanto quell’uomo tenesse all’ordine  e alla compostezza dei suoi capelli e sapeva che avrebbe voluto fossero sempre perfetti, irremovibili nel momento stesso in cui venivano modellati con il floshh, “lacca per mezzi-uomini”, come piaceva definirla lui. Walter era sempre stato un fissato dell’eleganza in ogni occasione: una caratteristica del suo carattere che tendeva a sfociare spesso nella paranoia, se essa non veniva compiaciuta. Eppure in quel luogo v’era qualcosa che annullava quell’esigenza estetica, che lo costringeva addirittura a far fare un piccolo sacrificio alla sua chioma sempre perfetta. Il paesaggio mozzafiato che dava quell’altura si poteva osservare in tutta la sua magnificenza, gli faceva superare ogni ostacolo, pur di poterlo contemplare.
Appoggiata su una gamba vi era la consueta valigetta scura che lo accompagnava ogni volta che veniva a far visita a Sanjuki. Sul davanti recava un disegno bianco di cerchi concentrici, su ognuno dei quali girava un piccolo cerchio, il simbolo di un pianeta, o forse un piccolo sistema solare. Si trattava del logo dell’agenzia per cui Walter lavorava e anche Sanjuki lo conosceva bene. Il simbolo degli Imbottigliatori.   
  




L’uomo si avvicinò lentamente a Walter, fino ad incontrarlo faccia a faccia. "Strano", pensò Sanjuki, "il suo viso non invecchia mai, invece il mio sembrava deteriorarsi ogni giorno di più. Forse è per via del tempo, che in un pianeta sotto vetro come quello in cui abito, scorre molto più in fretta del normale…"
«Ti ostini a farci incontrare sempre in questo maledetto punto, eppure tu sai benissimo che ho l’artrite alle ginocchia e non sono più aitante come un tempo? Tua madre non ti ha mai insegnato a portare rispetto per gli anziani?» lo rimproverò Sanjuki mentre si sedeva al suo fianco.
Walter gli sorrise. I suoi denti e i suoi occhi lampeggiarono. «Scusami Sanjuki, è che sono un sentimentale.»
«Un sentimentale?» borbottò Sanjuki, come se quella parola lo irritasse non poco. «Non so cosa ci troverai mai di bello in questo pianetucolo schifoso. Puah!» Il vecchio, al termine della frase, sputò impunemente a terra.
«Il solito apatico» commentò l’altro. «Noi ti regaliamo un pianeta bello e perfetto come questo e tu non sai fare altro che lamentartene ogni volta.»
«Apatico? Come cazzo parli?»

«Significa che sei insensibile alle bellezze della natura. Ad esempio, cosa provi nell’osservare questa agitata battaglia?» Per rendere più comprensibile le sue parole indicò la plumbea distesa d’acqua davanti a sé.

«Mi tremano i denti e le ossa. È questo gelo… e le gocce fredde che mi cadono addosso continuamente come punte di ghiaccio certo non aiutano a migliorare la mia salute.»

Walter sbuffò. «Non intendevo in quel senso. Sai cos’è il sentimento del sublime? »

«No» ammise il vecchio senza provare vergogna.

«Vari cervelloni hanno tentato di darne una definizione personale. Ma quello che riesce ad essere più breve e coinciso è Schopenhauer, un filosofo nato nel pianeta Terra circa settemila anni or sono. Secondo lui il sentimento del sublime è il piacere che si prova osservando la potenza o la vastità di un oggetto che potrebbe distruggere chi lo osserva. Parole migliori non avrei trovato per descrivere lo spettacolo naturale qui davanti ai miei occhi.»
Sanjuki borbottò qualcosa senza smettere di osservare il mare. Poi parlò con più chiarezza. «È perché non lo vedi tutti i giorni come faccio io. Sennò ora ti verrebbe il disgusto al solo pensiero d’udire il suono di un’altra onda infrangersi.»
«Certo…» disse Walter con una certa inflessione di sconforto nel tono della voce.  «Dopo tutto il tempo che ti conosco, e ancora mi ostino a parlare con te di queste cose!»
«Vai dritto al punto, Walter, o come farei bene a chiamarti:  imbottigliatore dei miei stivali! »
Walter cercò di celare inutilmente una certa irritazione per quelle insolenti parole. «Non chiamarmi
imbottigliatore, vecchio! Sono un funzionario governativo, non un ambulante da quattro soldi!»
«Vecchio… E pensare che un tempo, quando mi imprigionarono qui, avevo più o meno la tua stessa età. Non è che per caso ti sia fatto installare qualche protesi?»
Walter scrollò le spalle mentre gli rispondeva «no, è solo uno degli svantaggi di vivere in una palla di neve. A me sinceramente non dispiace affatto l’idea.»
«Certo che no, come è ovvio che sia. Ti conosco, io: vorresti veder morire in fretta tutti i criminali che hai sbattuto in gattabuia.»
«Può darsi che sia come dici tu. Ma questa è una soluzione rapida ed efficiente. Non viola i diritti inalienabili dell’uomo descritti nella Nuova Costituzione di Salensya e non è brutale come una oramai obsoleta pena di morte, anche se in realtà sortisce più o meno lo stesso effetto, agli occhi di quelli che vivono al di là del vetro.»
«Eppure tu parli come se io fossi già morto.»
«Al massimo tra una anno sarà così» constatò Walter, come se stesse descrivendo un semplice dato statistico. «Che nel tuo piccolo pianeta corrisponderanno ad altri dieci anni. Eppure l’aria salata di Requebeq VI ha reso le tue ossa forti per molti anni. Dovresti esser grato ad essa per averti fatto sopravvivere tanto a lungo.»
«Risparmiami le tue stronzate e vai dritto al punto» lo attaccò il vecchio. «Perché c’è un punto vero? O sei venuto qui solo per ridermi in faccia?»
«Effettivamente, non sarei qui se non ci fosse un valido motivo. Viaggiare nel rimpicciolitore particellare più essere molto stancante ed evito di farlo, se non è assolutamente necessario.»
«Riguarda la mia famiglia? È successo qualcosa a mia figlia?» Chiese con una certa preoccupazione Sanjuki. «Cazzo, se gli è successo qualcosa io…»
«Non preoccuparti, tua figlia sta benissimo. Che io sappia, lavora ancora al Centro di Ricerche Biomolecolari ad Impatto Sonico nella città di Salandris, nel pianeta Hootor X. Inoltre, il marito è un rinomato ricercatore nel campo dei cervelli positronici. Stanno tutti bene, Sanjuki, sia fisicamente che economicamente.»
«Devono averla promossa. L’ultima volta che ebbi sue notizie doveva ancora completare il suo stage di tre anni.»
Walter si concesse un rapido sorriso. «Sì, ora è ufficialmente un’ottima ricercatrice e una ragazza in gamba, senz’ombra di dubbio. Non come quel farabutto di suo padre ergastolano.»
«Vi ha mai chiesto di me? Recentemente, intendo.»
L’imbottigliatore scosse la testa. «Anche se lo facesse, noi non potremmo dir nulla.»
Il vecchio abbassò lo sguardo, atterrito dalla sconforto. «Vorrei vederla per l’ultima volta… Solo per dirle addio… »
Walter tossì, forse perché rifiutava di sentir avanzare simili richieste. Gli sarebbe stato impossibile soddisfarle, nemmeno se lo avesse voluto. «…Non sono qui per questo, Sanjuki. Devo dirti delle cose. Delle notizie dall’esterno.»
«Esterno? Notizie dell’universo reale?»
«Non chiamarlo reale. Questo sistema solare è reale quanto tutti gli altri, solo… più isolato. Comunque percepisco la tua incredulità: sappiamo entrambi che nessuna informazione che non riguardi i diretti consanguinei dei detenuti può o è permesso che trapeli a coloro che scontano una pena all’interno delle palle di neve. Ma abbiamo dovuto fare un’eccezione.»
«E con ciò?» Sanjuki lo afferrò per un braccio. «Avanti, non tenermi sulle spine.»
«Prima però devi lasciarmi fare una premessa. Vedi, dethvedì scorso, il Partito Conservatore è caduto.» Walter emise un respiro profondo, poi riprese. «Un evento che ha scosso tutto l’universo, per via della sua importanza storica e del fortissimo impatto che avrà una simile vittoria da parte dell’opposizione nella vita di ogni singolo essere umano, ma non solo. Il Governo Galattico ha indetto un nuovo referendum per eleggere il nuovo partito che dovrà gestire le relazioni interne ed interuniversali della razza umana. Il risultato delle votazioni verrà reso noto tra una settimana, ma questa è una faccenda di secondaria importanza, al momento.»
«Pensi che me ne importi dei vostri trastulli politici? Tutto ciò non mi tocca affatto. Io morirò  intrappolato tra i vetri di questa cella planetaria» osservò aspro Sanjuki.
«Invece credo che sotto alcuni aspetti riguardino anche te… e noi.»
«Che c’entrate voi?»
«Poiché facciamo parte di un’agenzia che serve il governo, lavoreremo per chiunque salirà al potere.» Poi, forse rendendosi conto di non aver dato una spiegazione sufficientemente esaustiva, l’imbottigliatore continuò: «ma ora che i conservatori e le loro ideologie moderate sono cadute, tutti gli altri partiti promuoveranno la ricerca scientifica in tutte le sue forme, pur di ottenere il consenso della maggioranza planetaria. Anzi, i vari laboratori, come anche quello in qui lavora tua figlia, hanno già cominciato a intensificare la proprie attività di ricerca di nuove tecnologie, hanno acquisito nuovi ricercatori oltre il numero massimo consentito dalla precedente amministrazione e commissionato la costruzione di macchinari avanzati che nel precedente governo erano stati totalmente aboliti.»
Il vecchio scosse lievemente il capo. «Continuo a non capire.»
«Sto parlando di clonazione, Sanjuki. Qualcosa di cui forse avrai sentito parlare da qualche erudito o letto negli antichi libri di storia, ma di cui i moderni mass media, fino a pochi giorni fa, hanno praticato l’oscurantismo più inflessibile» spiegò con fare saccente Walter.
Il vecchio sogghignò. «Sì, ne ho sentito parlare, ora che mi ci fai pensare. Se non ho capito male, volete fare un doppione di me da usare per i vostri divertimenti? Non vi facevo dei pervertiti.»
«Non dire stupidaggini. Questo non avrebbe senso. Permettimi di dire che comunque il tuo nozionismo riguardo la clonazione è alquanto arcaico.»
Ti ho detto che ne ho solo sentito parlare, tutto qui. Non credevo nemmeno fosse possibile, fare gli uomini come con lo stampino, tutti uguali.»
Walter accennò di nuovo un sorriso al suo interlocutore. «Ed è qui che ti sbagli. Tu intendi per “clonazione” la sola idea di una copia di un uomo, di un essere vivente, o anche volendo, di un alieno. Ma possiamo estendere il termine anche ad altri ambiti, come ad esempio a quello… della riproduzione di oggetti. Ma non stiamo più parlando di genetica, bensì di un principio fisico legato al concetto di scambio equivalente.»
«E cioè?»
«Scambio in termini elementari, di composizione. Un concetto che si avvicina a quello di trasmutazione, ma più concreto. A livello molecolare, ogni costituente dell’oggetto che si intende replicare viene, sotto profilo teorico, scardinato. Poi, viene restituito come massa, e la macchina lo rielabora automaticamente costruendolo come oggetto fatto e finito.  Una copia esatta sotto ogni punto di vista, voglio dire, e questo ci permetterebbe…»
Sanjuki lo interruppe. «Questo mi sembra già più interessante. Potreste arrivare a clonare i vostri crediti galattici all’infinito!»
Walter piegò l’angolo della bocca in un ghigno prezzante, che nascose immediatamente. «Che idea… alquanto materialista! Ed inutile, visto che come sai i crediti sono diventati concetti puramente astratti, e ora possono essere trasmessi solamente via telematica. Ma non ti rendi conto di quello che possiamo fare ora con questa tecnologia? Devo dirtelo o ti bastano gli indizi?»
Sanjuki diede mentalmente una spolverata alle lezioni di fisica spaziale cui era stato obbligato a frequentare da giovane. «Potreste clonare, be’… i pianeti ed i sistemi solari mi paiono ancora un po’ troppo grandi, a meno che i raggi cosmici a cui i pianeti sono continuamente sottoposti possano essere utilizzati come veicolo per la propagazione di raggi… come diavolo potrei chiamarli?»
«Intendi dire replicanti?» suggerì Walter.
«Sì, quelli lì…»
«No, non esiste una simile tecnologia per ora. I soggetti viventi sono impossibili da duplicare, dato che non siamo ancora in grado di dire di cosa sia costituito l’elemento x, i ventuno grammi che i fanatici religiosi si ostinano ad attribuire al peso dell’anima. Siamo però recentemente entrati in possesso di quella che è ora la più avanzata macchina per clonazioni di oggetti non viventi esistente. Ma vedi, l’oggetto più grande che può duplicare corrisponde alla massa di un pallone da Snorfair, circa. Vuoi altri indizi o devo dirti proprio tutto io? Comunque c’eri andato vicino con la storia dei pianeti e dei sistemi.»
«Io… Non vorrete mica…» Sanjuki biascicò parole sconnesse, l’incredulità era tanta in lui.
«Come facciamo noi funzionari governativi per imprigionare i criminali della peggior specie come te, Sanjuki?»
Il vecchio emise un lungo sospiro.«Voi imbottigliatori, prendete i più piccoli sistemi solari dell’universo, quelli in cui gira almeno un pianeta intorno a una stella, in modo che possa garantire la sopravvivenza di un essere umano, su cui poi ovviamente abbandonate il prigioniero, in balia di un territorio spesso ostile e del tutto sconosciuto. Con i raggi gamma del rimpicciolitore, sondate completamente il sistema in modo tale da “imbottigliare” questi micro-universi in quelle stupide, fragilissime palle di neve, che appena scivolano via dalle vostre mani incompetenti potrebbero infrangersi al suolo in mille pezzi e così decretare la fine dell’esistenza di quell’universo in miniatura. Da come volete far credere, il procedimento serve a evitare spiacevoli evasioni, e questo è il metodo migliore per metterci tutti quanti sotto chiave in tutta sicurezza. E voi vorreste clonare questi universi attraverso questa macchina che prima non vi era consentito usare!»
«Esatto. Non è che vorremmo, l’abbiamo già fatto.» Così Walter afferrò la valigetta ai suoi piedi, la poggiò sulle gambe, alzò i ganci e la aprì. All’interno vi era solo una sfera perfetta, della grandezza di una boccia, la cui superficie era di vetro trasparente. All’interno Sanjuki intravide l’immagine di un cielo stellato in miniatura, su cui volteggiavano un paio di pianeti attorno ad un piccolo sole. Walter mise l’oggetto nelle mani di Sanjuki, in modo che potesse esaminarlo al meglio.
«Che-che cos’è?»
«Il tuo micro-sistema solare sotto vetro, ovviamente. Non sarebbe stato possibile portarlo fino a te se non l’avessimo prima replicato.»
«Oh, non posso crederci» balbettò Sanjuki con versi strozzati. «Sto tenendo tra le mani… pianeti? Interi, enormi pianeti nel palmo delle mani… » Effettivamente, all’interno della palla di neve, poteva percepire ad occhio umano lo spostamento dei mondi, il forte brillio della stella centrale su cui ruotavano a velocità quasi impercettibile. Un vero e proprio  sistema solare vibrante, vivo, eppure al tempo stesso così piccolo ed insignificante…
«È un’emozione irresistibile, vero? L’onnipotenza fra le dita…» Walter sembrava serbare molto orgoglio nei confronti di quel piccolo gingillo.
«Ma allora qui dentro c’è la copia di questo stesso identico pianeta? C-c’è un altro me, là dentro?»
«No, per fortuna. Ho detto che è impossibile replicare la vita. E questa non è nemmeno una stella diversa da quella su cui stiamo ora. Ti rendi conto di quale casino sarebbe se fosse il contrario? Una situazione del genere sancirebbe l’esistenza di universi alternativi, e ciò potrebbe rivelarsi un qualche cosa di ingestibile, non solo per noi, ma per chiunque. Se fosse come dici tu, in breve tempo potremmo avere copie e copie di un grosso sistema solare, tanto che non ci renderemmo nemmeno conto se la realtà che stiamo vivendo sia quella originale, o sia quella di un altro universo imbottigliato. In qualunque caso, non sapremmo mai quale sarebbe la realtà, poiché ognuna sarebbe tale e quale all’altra, come un’infinita, inquietante serie di matrioske.»
«Non ho capito molto di quello che hai detto.»
«Ho cercato di dirtelo nel modo più semplice che conosca, sapendo che se ti avessi parlato di casuali e variabili, mi avresti capito ancora meno. Ad ogni modo, quella che hai tra le mani non è in realtà la copia del tuo micro universo, bensì la copia della palla di neve in cui esso è contenuto. Eviterei di agitarla troppo, perche se ti dovesse cadere tra le mani, faremmo la stessa fine di un asteroide la cui traiettoria prossima è un buco nero.»
Il vecchio sgranò gli occhi. «Cosa? Potevi dirmelo prima! Cavolo, stavo anche pensando di vedere che effetto faceva vedere la scomparsa di un sistema solare che non fosse il mio!»
«Puoi giocarci quanto vuoi, ma non prima che io me ne vada.»
«Cosa? vuoi lasciarmelo? E cosa dovrei farmene?»
Walter agitò la mano con atteggiamento sprezzante. «Quello che vuoi. Di certo non potresti usarlo per fuggire da qui, caro Sanjuki. Ma conosco uomini dalla misera esistenza ai quali, non in grado di porre fine alla propria vita per mancanza di fegato, farebbe comodo un gingillo come questo.»
«E tu mi reputi una persona del genere?»
«No, al contrario. Ma i miei capi hanno deciso che sia giusto così, che si possa fare pulizia di certa gente più in fretta senza violare la legge. Ma questo conta poco, se ci pensi bene: tu per noi durerai ancora per poco. Il fatto è che ci sembrava giusto che gli ergastolani avessero l’opportunità di un suicidio… legale. Un atto indolore, definitivo, senza mezze misure. Ma non saltare subito alle conclusioni e cerca di comprendere: nel nostro universo ogni pianeta abitato dispone di ospedali, ambulanze, medici, che in caso di morti mancate possono intervenire nella speranza di salvare l’aspirante suicida. Qui non avete nulla, non sapreste mai se, dopo esservi lanciati dalla scogliera, invece di spappolarvi il cervello rimarreste paralizzati,  ritardando in maniera estremamente più lenta e dolorosa il vostro decesso. Nulla è sicuro, ma non se aveste tra le mani un simile oggetto… »
«Basta!» si agitò Sanjuki, che stava cominciando ad avere il voltastomaco. «Ho capito, ho capito. Credete che gente come me si penta delle proprie cattive azioni e che voglia metter fine alla propria vita non sopportandone il rimorso, pur sapendo che questa è già in qualche modo una non-esistenza, dato che siamo già stati tutti quanti messi sottovuoto, come le sardine, privi di qualsivoglia contatto con la realtà della Galassia. Questo non lo accetto, ho ancora una dignità, seppur poca. E la conservo gelosamente. Tieni, non la voglio, la tua opportunità!» Premette quindi la sfera al petto dell’Imbottigliatore, e la lasciò andare, in modo che questa gli cadesse fra le gambe.
Walter l’afferrò con entrambe le mani, e la pose delicatamente accanto a sé. «Volere dei miei capi, ma, mi dispiace, non puoi farla ritornare indietro. Noi abbiamo già l’originale che, nel caso tu rompessi la tua, scomparirebbe anch’essa. Te lo dico solo per dovere d’informazione, sai, siamo molto attenti a queste cose.»
«Ma, allora, cosa dovrei farmene?»
«Usala come addobbo,» si limitò a suggerirgli «ti sei costruito una bella casetta, poco distante da qui. Spero non precaria come questa panchina, però, sennò potrei trovarla a pezzi la prossima volta che verrò a farti visita.» Poi sembrò prestar attenzione all’ora segnata sul suo orologio allacciato al polso, che improvvisamente cominciò a squillare come una sveglia. «Oh, è già ora che me ne vada.»
«Sciocchezze, so che non verrai mai più. Questo è il nostro ultimo incontro, vero Walter? »
«Se lo sai già, perché chiedermelo?»
«Volevo sentirlo dire da te. Almeno salutami come si deve!»
«Temo sia tardi, oramai» si giustificò con finto tono di rammarico. «Ho un tabella severa da rispettare, e dopo di te ho altri diciotto galeotti a cui concedere la  stessa opportunità» disse Walter, congedandosi con un alquanto insolito saluto militare.
Il vecchio gli puntò contro un dito accusatore. Mentre parlava la sua mano tremava leggermente. «Maleducato, maleducato come sempre. Ma spero tua madre ti rimproveri quando ti comporti così.»
«Mia madre è ben arzilla. E più giovane di quanto tu possa immaginare. I vecchi come te, Sanjuki, li tratta allo stesso mio modo.»
«Tu… tu sei un gran pezzo di…»
«Abbi cura di te Sanjuki» lo interruppe Walter prima che potesse terminare il suo insulto.
Sanjuki non si diede per vinto. «Allora concedimi soltanto questo, Walt, un ultimo abbraccio. Per dirci addio. »
L’imbottigliatore sorrise e si limitò a battergli sulla spalla, un po’ stupito dal repentino cambio di umore del vecchio. «Avanti, so che non lo vuoi davvero. Non da me, almeno.»
«Sei l’ultimo uomo che vedrò in vita mia. Dovrò accontentarmi.»
Walter parve dubbioso «Strano che tu non trova la cosa poco… virile. »
«Avanti» Sanjuki finse un sorriso. « In fondo quando eri solo un imberbe sbirro che cercava di farsi un nome e mi davi la caccia, era come se fossimo stati quasi amici.»
Walter sbuffò, ma non si oppose alla stretta di quel vecchietto che, in fin dei conti, non aveva nessuno che gli facesse compagnia. «Sei un bravo ragazzo» gli disse Sanjuki  all’orecchio con affetto quasi innaturale. Poi si staccò da lui.
Si osservarono per un poco, poi Walter decise che era momento di andarsene. Controllò di nuovo l’orologio, annuendo quando su questo comparve il volto di una signorina in ologramma che lo avvertiva che sarebbe stato trasportato seduta stante a bordo della nave governativa. Scomparve così inghiottito da un’onda violacea che lo avvolse ammantandolo come una nube. Il vento portò con sé i residui di foschia, senza lasciare nulla là, nel punto dov’era stato seduto poco prima l’imbottigliatore.

Sanjuki prese fra le mani la palla di neve e rifletté. Quali sarebbero state ora le sue prossime mosse?
I poveri stolti e grassi burocrati lo indirizzavano a un suicidio premeditato… i suoi pensieri sfregavano con la coscienza e con il suo Io recondito, producendo riflessioni avvilenti. "Piazza pulita, dicono. Pulizia. Siamo solo spreco di denaro pubblico, in fondo, no? Questa palla di neve ne è la prova concreta." Poggiò la magica sfera sopra alla panchina. Una posizione alquanto instabile. Ma sapeva bene ciò che faceva.
Diede un ultimo sguardo al mare cattivo, spesso soggetto principale del suo odio. Abbassò poi lo sguardo sulle sue mani. Non erano vuote come lo erano state quando era salito fin su del promontorio...
"Morire… oppure…"
Capitava che alle volte un uomo dovesse fare delle scelte, decidere di cambiare il suo destino, rischiando anche la vita per questo. Se avesse fallito nell’estrarre dalla fondina di Walter il generatore particellare di sicurezza, sarebbe stato spazzato via dal fulminatore riposto nell’altra estremità della cintura.

Walter non avrebbe esitato… nemmeno un secondo, e fanculo ai sentimenti. “ho  fatto fuori il vecchio” avrebbe poi dichiarato l’imbottigiatore al suo questore (un grasso burocrate anch’egli, doveva essere) “è arso prima che potesse schiacciare il pulsante di teletrasporto e fuggire chissà dove. Non me lo sarei mai perdonato se un pericoloso criminale gironzolasse per la galassia a causa mia." Certo, e gli asteroidi erano di plexiglass! Ma chi voleva prendere in giro? Se Sanjuki fosse riuscito a scappare a causa di una distrazione da parte di Walter (sfilato via da un vecchio decrepito!), come minimo sarebbe stato declassato all’ultimo grado della gerarchia dei piedipiatti. E gli conveniva che gli piacesse dirigere il traffico, perché era quello che gli avrebbero fatto fare una volta scoperta l’evasione. "In fin dei conti mi era quasi simpatico. Un figlio di puttana simpatico."

Ed era vero che dopotutto il tempo cancellava le ferite della mente. Ma in quel digradarsi del suo stato d’animo a uno stato di malinconica accettazione, i sogni di Sanjuki furono sostituiti da una sorta di riscatto. E tutto era avvenuto in un poco più di tre secondi.

«È giusto sognare, ma è necessario anche svegliarsi al momento giusto.»

Prima era stato confuso, poi dubbio. Ma mano a mano che se lo immaginava mentre discuteva con Walter, diventava sempre più concreto. E dalla concretezza iniziale il vecchio ne aveva sfornato un piano, semplicissimo. Doveva solo accedere al generatore di particelle dell’agente governativo. Quando gli si fosse presentata l’occasione giusta, mediante le agili movenze di borseggiatore professionista come era stato in un’altra vita, avrebbe recuperato l’unico oggetto che poteva permettergli di evadere dal microuniverso imbottigliato. Successivamente, si sarebbe infiltrato all’interno della nave governativa (doveva solo scegliere bene le coordinate in cui sarebbe apparso nei corridoi dell’astronave, onde evitare spiacevoli equivoci) per poter così scorrazzare libero alla ricerca di una navicella o di un piccolo incrociatore galattico per poi volare via lontano, invisibile ai sensori di avvicinamento dei quali ogni struttura governativa era dotata.

Il pianetucolo non sarebbe stata mai la sua tomba. "Tranquille guardie, non sarebbe necessario nessun suicidio per liberarvi in posto nella vostra spaziosa cella. Che illusi! Il vostro amico Sanjuki avrebbe saputo utilizzare quella nuova disposizione di eventi a suo vantaggio. " Ed il bello era che erano stati proprio loro, a offrirgli quell’opportunità!
Però avrebbe dovuto distruggerla quella cella, quindi a pensarci bene nemmeno gli sbirri avrebbero tratto alcun beneficio dalla sua evasione. Perché solo se il suo pianeta fosse stato distrutto, tutti avrebbero potuto credere alla storia della sua dipartita, del suo suicidio. E nessuno avrebbe mai pensato a una fuga, mentre Walter se ne sarebbe stato zitto riguardo al fatto di aver perduto il suo generatore particellare, evitando una colossale figura di merda.
Sanjuki ritornò con un certo disturbo alle questioni di immediata rilevanza. Stretto fra le sue mani tremolanti, il calcio del generatore riportava, appena sotto del numero di serie, il pulsante di accendimento. Lo guardò con desiderio, ed era bene che lo facesse, perché ora il vento si faceva sempre più violento e insistente. La palla di neve vacillava sotto il volere dei suoi respiri profondi.
"Tutto quello che desidero è andarmene via da qui. Da questo mare, e da tutto quanto questo freddo."
E premette il pollice sul pulsante. Il contatto fece accendere una spia rossa sulla sommità dell’aggeggio. Rimase dello stesso colore per all’incirca tre secondi, poi si spense.  Delle parole dal suono robotico uscirono da una sorgente situata sul rigonfiamento inferiore del calcio. Sanjuki non riuscì a decifrarne il significato. Non successe nient’altro.
Colto da un terribile presentimento, riprovò a compiere la stessa azione, stavolta avvicinando l’orecchio alla sorgente sonora. La spia rossa si accese un'altra volta. Le parole uscirono nuovamente dal generatore, stavolta comprensibili ai suoi orecchi. «Lettura impronta digitale effettuata. Autorizzazione negata.»
Sanjuki aprì la bocca, ma non uscì alcun suono eccetto un pallido «ma…»
In quell’esatto momento, il vento, in una folata di selvaggia irruenza, scaraventò la sfera di vetro giù dalla panchina, e poi ancora più giù, via sul sentiero, sbattendo sulle rocce e sul pietrisco. Il vecchio avvertiva le conseguenza del frantumarsi in schegge della sua superficie ogni volta che un balzo la faceva volare, effetto che si riverberava nell’ambiente attorno a lui con conseguenze spaventose. Pareva di trovarsi nel bel mezzo di uno tsunami. La terra ricevette dei forti scossoni, la boscaglia ondeggiava al ritmo del cielo, sfumato e sfrangiato dal cataclisma generale. Il mare si abbatté sulla roccia con grattacieli di onde che travolsero Sanjuki. Ancora sotto choc e imbibito di incredulità, cercava disperatamente di mettersi in salvo, ma venne sommersero ancor prima di compiere un passo. Le onde sballottarono il suo corpo con violenza tra le correnti, come volessero cercare vendetta nei confronti del suo odio sviscerale per il mare. Gli spezzarono le vertebre e varie ossa come fossero ramoscelli. Un forte colpo gli arrivò sul cranio e lo fracassò, spargendo sangue e materia cerebrale tra la schiuma e i flutti.
Nel momento in cui la sfera si frantumò completamente, il vecchio era già morto, sepolto dagli abissi infiniti del sublime. Concetto che non aveva più senso di esistere, in un universo oramai ridotto a un misero mucchietto di schegge di vetro.